Ammesso e non concesso che il miracolo della letteratura si lasci spiegare in sintesi, con formule accessibili ai profani, potremmo dire che quanto Franz Kafka ha scritto presenta spesso degli incipit fulminanti. Che si tratti di racconti o di romanzi, da lettori si ha l’impressione fisica di essere rimasti incantati dal primo bagliore con cui ha inizio un testo. E questo accade anche quando si conosca già ciò che si sta leggendo.
Non siamo davanti, cioè, a un effetto-sorpresa che svanisca dopo la prima volta con il sapere. Ha a che fare, invece, con la precisa sensazione che bastino quelle poche righe iniziali per venir convocati davanti a un abisso: il racconto è appena iniziato, ne abbiamo letto giusto un rigo o due e siamo già presi nella sua cattura inaspettata. Così i più famosi incipit hanno qualcosa di immediato: prima di rendersene conto, quando è già troppo tardi per tirarsene indietro, hanno già esercitato la loro magia sui loro lettori.
Questo che potremmo chiamare effetto-Kafka non risulta però da un qualche artificio letterario macchinoso: gli incipit sono spesso di una semplicità talmente elementare da risultare irresistibile. E questo non fa che aumentarne l’enigma al cui fascino dolcemente ci arrendiamo ogni volta che il nostro sguardo scorre lungo quelle righe scritte o che qualcuno legge ad alta voce quei versi in prosa.
Se ne prenda qui giusto qualche caso a mo’ di esempio:
- «Gregor Samsa, svegliatosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo» (La metamorfosi);
- «Qualcuno doveva aver denunciato Josef K. perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato» (Il processo);
- «”È un apparecchio singolare”, disse l’ufficiale all’esploratore, contemplando con uno sguardo quasi ammirato l’apparecchio a lui ben noto» (Nella colonia penale);
- «Abbiamo tra noi un nuovo avvocato, il dottor Bucefalo. Nel suo aspetto esteriore ricorda poco il tempo in cui era destriero di Alessandro il Macedone; ma chi è ben al corrente delle circostanze nota qualcosa d’inconsueto» (Il nuovo avvocato);
- «L’imperatore – così si dice – ha inviato a te proprio a te individuo singolo, miserrimo tra i sudditi, a te che davanti al sole imperiale sei fuggito come futile ombra nella più remota lontananza, un messaggio dal suo letto di morte» (Un messaggio dell’imperatore);
- «Alcuni affermano che la parola Odradek sia di origine slava, e su questa base cercano di ricostruirne la formazione; altri ritengono invece che venga dal tedesco e che lo slavo l’abbia soltanto influenzata. Di fronte a due così incerte interpretazioni, se ne può dedurre a buon diritto che siano entrambe inesatte, tanto più che né l’una né l’altra consente di risalire a un significato della parola» (Il cruccio del padre di famiglia);
- «Illustrissimi signori accademici! Grande è l’onore che mi fate con l’invitarmi a presentare alla vostra accademia una relazione sulla mia antica esistenza di scimmia» (Relazione per un’Accademia).
Basterebbero forse questi per una prima disamina, ma subito viene in mente quell’incipit che non solo parla di una cavalcata, ma che della cavalcata ha il ritmo:
Se una qualunque cavallerizza, gracile, malata di tisi, fosse spinta sopra un malfermo cavallo in giro nella pista ininterrottamente, per mesi, davanti a un pubblico insaziabile, dalla frusta squassata da un superiore senza pietà, piroettando sul cavallo, gettando baci, molleggiandosi sui fianchi, e se questo spettacolo sotto il persistente frastuono dell'orchestra e dei ventilatori si prolungasse nella grigia incessante prospettiva del futuro, accompagnato dal decrescere e poi dal riaccendersi di scrosci di mani plaudenti, che sono in realtà magli a vapore – forse allora un giovane spettatore di galleria si precipiterebbe giù per la lunga scala e, attraversate tutte le file di posti, piomberebbe nella pista e darebbe a gran voce l'alt, fra lo strombettio dell'orchestra che sempre si adegua alle situazioni. (In galleria).
Del resto, resta magistrale anche l’attacco dei frammenti che Kafka ha intitolato Er (Egli), in cui ogni volta si ripete una formula che inizia appunto con il pronome della terza persona singolare:
Egli non è mai sufficientemente preparato per nessuna occasione... Tutto quello che egli fa, gli sembra straordinariamente nuovo... Egli sarebbe venuto a patti con il carcere… Egli sente che vivendo si blocca la strada. Da questo impedimento egli trae la prova che è vivo…
E così via, senza che mai scopriamo chi davvero sia questo egli, che resta inequivocabile ed enigmatico, al tempo stesso. Si potrebbe certo dire che quell’egli non è che un modo per raccontare se stesso, evitando l’uso dell’io. Eppure è evidente che questo egli, ritmando il testo in maniera sincopata, ci introduce a un’altra dimensione. Questa può forse anche appartenere a quella che chiamiamo la nostra vita, ma in realtà scava al suo interno un buco che resta inappropriabile a qualsiasi io. Egli è, con tutta evidenza, risolutamente estraneo all’io, anche se forse è più me del mio proprio io.
I ripetuti inizi di Er ci confrontano soprattutto con un altro aspetto: più che l’accadimento di qualcosa a cui la letteratura avrebbe la capacità di farci partecipare, gli incipit kafkiani ci confrontano con qualcosa che è già accaduto, forse sin da sempre o forse no, ma che è comunque irreparabile. Sembra addirittura essere non solo già accaduto, ma accaduto tante volte che, a furia di ripetizioni, è diventato normale che un rocchetto ci parli (come accade nel caso di Odradek). Essi ci confrontano con una certa irreparabilità, che non è però né malinconica né depressiva, perché anzi da essa comunque la vita – una vita segreta e senza nome o, quando un nome ce l’ha, senza coordinate – continua imperterrita a sgorgare. Non è una vita personale, come solitamente la conosciamo o la intendiamo. Così uno degli aforismi di Er chiarisce senza lasciare dubbi in merito alla sua natura impersonale:
Egli non vive per la sua vita personale, egli non pensa per il suo pensiero personale. Egli si sente come se vivesse e pensasse sotto la pressione di una famiglia che è essa stessa estremamente ricca di vita e di forza di pensiero, ma per la quale egli rappresenta una necessità formale secondo una legge a lui sconosciuta. A causa di questa famiglia sconosciuta e di queste leggi sconosciute, egli non può essere rilasciato.
Ecco che, forse, la brevità fulminante degli incipit di Kafka deve essere messa in relazione all’immediatezza del loro effetto ovvero con un’abbreviazione del tempo in cui le cose (ci) accadono in maniera vertiginosa senza o al di là di ogni (nostra) intenzione. L’incipit ci espone a qualcosa di inaspettato: è un punto di esitazione o d’arresto, un passo a vuoto per la nostra stessa comprensione.
È la breccia improvvista e imprevista da cui dentro l’ordine più meticoloso si infila insidiosa la polvere della contingenza, la cui verità ha la forma di un quasi-nulla. È lo scarto minimo del racconto che però non ha luogo al suo interno, dopo che è già cominciato, ma è magistralmente posto all’inizio del racconto stesso, come sua soglia d’ingresso, come punto di esitazione, come scarto minimo, ma sufficiente, per produrre un effetto duraturo. Proprio all’inizio, dove il racconto dovrebbe avere piena padronanza della propria materia, un elemento incontrollabile ha già preso il controllo… là qualcosa si svela, ma senza avere i tratti di una rivelazione in grande stile. È un’apocalisse minima, quotidiana e ripetuta. In fondo, non c’è niente di cui preoccuparsi se il mondo è alla rovescia rispetto a come intende pensarlo e viverlo il rassicurante senso comune.
Indimenticabile resta l’attacco forse meglio congegnato in assoluto, quello dell’apologo Davanti alla legge, contenuto nel Processo:
Davanti alla legge sta un guardiano. Un uomo di campagna viene da questo guardiano e gli chiede il permesso di accedere alla legge. Ma il guardiano gli risponde che per il momento non glielo può consentire. L'uomo dopo aver riflettuto chiede se più tardi gli sarà possibile. "Può darsi", dice il guardiano, "ma adesso no".
Ma questa arte dell’incipit raggiunge la sua perfezione vertiginosa, a cui tende da sempre, in Desiderio di diventare un indiano. È un racconto perfetto nella misura in cui si realizza tutto nel suo incipit, senza punti di interruzione:
Ah, se fossi un indiano, ecco qua, pronto, sul cavallo in corsa, obliquo nel vento, scosso da brevi sussulti sul suolo sussultante, fino a gettare gli sproni, che non ci sono, fino a buttare le redini, che non ci sono, fino a intravedere appena la prateria rasata che mi fugge davanti, senza più collo né testa di cavallo.
Qui incipit e racconto si indeterminano, finendo per identificarsi pienamente: è racconto e incipit al tempo stesso. Qui l’impresa letteraria del secolo si compie proprio realizzandosi nel suo semplice incipit e consumando così la narrazione, ovvero esaurendone l’esigenza e lasciando il campo libero. Qui la letteratura ci ha condotto al punto in cui le cose accadono senza che ci sia nulla da raccontare.
Cosa succede?
Un incipit di Kafka, come quelli che abbiamo citato, ci stordisce. Ci introduce come altrettanti voyeur dentro uno strato ignoto o proibito della realtà, lasciandoci in balia di ciò che abbiamo appena visto e che ci ha accecato per troppo vedere. Quell’incipit all’apparenza così semplice ci consegna a uno spaesamento in cui la vista non è in rapporto con un sapere che permetta di inquadrare e di ordinare quanto abbiamo effettivamente visto. Ecco anche perché quegli incipit restano spesso indimenticabili, come altrettante folgori luminose che non smettano di prenderci alla sprovvista, sconcertandoci perché in primis hanno s-concertato la lingua in cui venivano scritti. Alla lettera: le hanno tolto la consonanza della lingua dei luoghi comuni, l’accordo che non avrebbe permesso di scrivere nulla, perché la lingua era già troppo satura del suo carattere ottusamente burocratico.
Se il guardiano di Davanti alla legge sembra proteggere un segreto che non possiede, l’incipit kafkiano sembra essere ben più ambiguo: è un usciere che non difende nulla, né impedisce l’accesso alla pagina raccontata, ma anzi vi invita a entrare. Si è già dentro prima ancora di rendersene conto, dicevamo. Potremmo allora affermare che, al contrario di quel guardiano, l’incipit possiede un segreto che non protegge, ma che espone. Con ciò ci ha già coinvolto, ha già ispirato il desiderio di saperne di più, di procedere dentro quella pagina che si è annunciata in maniera folgorante. Che lo volessimo o no, prima di leggere quell’incipit da cui tutto ha avuto inizio.
Chiaramente se l’incipit è la sorpresa, a quel primo istante di stordimento, dato che non possiamo ancora sapere cosa voglia dire, segue un congegno letterario che è una macchina più implacabile ancora dell’erpice della colonia penale che con i suoi denti acuminati scrive sul corpo del condannato. In Kafka il funzionamento letterario è macchinico, rigoroso, di una necessità implacabile.
L’andamento del racconto si compie nel segno dell’univocità dato che procede nell’unico modo possibile ovvero come se, date determinate premesse che l’incipit ha posto, ci fosse un unico modo in cui la storia può andare, spesso senza finale (altro abisso aperto sotto i piedi dei lettori). L’incipit ha fatto esplodere qualcosa, ciò che segue è un catalogo delle macerie o degli effetti che una premessa sviluppata rigorosamente porta con sé. La cosa singolare è, però, che nonostante l’effetto di stordimento che tale sorpresa produce, l’incipit suona pienamente plausibile.
Dobbiamo riprenderci da quello sbigottimento prodotto dall’apparizione di un rocchetto di filo, piccolo e veloce, che però parla e lo fa con una voce che ricorda il fruscio delle foglie cadute, per accorgerci che quella realtà, quel contesto, che con tutta evidenza non sono molto differenti dalla nostra realtà e dai nostri contesti, sono molto più sconvolti e rovesciati di come ce li sarebbe aspettati. C’è qualcosa di una profonda verosimiglianza che ci colpisce nel ritmo calmo con cui Kafka introduce creature improbabili come Odradek o l’avvocato Bucefalo, che un tempo era un cavallo, o un relatore accademico che testimonia della sua natura di scimmia…
L’incipit sembra una figura emersa da un’antichità immemorabile, a partire dalla quale ci avvediamo che non è possibile assegnare a nessuna figura un posto fisso, una collocazione determinata e riconoscibile. Appena si approfondiscono le cose, si scopre che tutto il mondo ha subito uno spostamento. Anzi, con una formulazione più vicina allo spirito di Kafka: il mondo deve aver subito uno spostamento, di cui sono evidenti gli effetti, benché potessimo anche non saperne nulla o fingere di ignorarlo, sinché il racconto non è iniziato. Si sarà trattato di uno spostamento magari minimo, ma decisivo, a partire dal quale tutte le cose sono fuori di sesto, alla lettera dissestate, che è anche un altro modo di dire: dissennate.
È stato detto che in questa malia letteraria c’è qualcosa del sogno e che Kafka scriveva come abitualmente si sogna. Potremmo allora dire che ogni incipit non sarebbe che il prolungamento di uno stesso sognare, nelle sue infinite variazioni. In un intrecciarsi senza fine di trama e di ordito. Ognuno di quegli attacchi musicali finisce per disegnare una catena sonora – ininterrotta, dato che si può ricominciare sempre da capo –, in un movimento virtualmente infinito.
D’altro lato, è anche come ricominciare sempre da capo, dato che il racconto precedente non ha trovato pace nella sua conclusione, secondo un andamento frammentario, dal ritmo spezzato, che ha come effetto quello per cui il testo letterario più riuscito spesso non è altro che un appunto.