Il 13 marzo di quest’anno è morto William Hurt, attore teatrale e cinematografico, all’età di 71 anni (era nato il 20 marzo 1950). Attore amatissimo anche dal pubblico italiano, se non altro per la sua performance con Zeffirelli (Jane Eyre, 1996), ma sostanzialmente sconosciuto, data la pratica generalizzata del doppiaggio che impera sui nostri schermi. Stando a Jane Eyre, Hurt poteva passare per un attore romantico, specializzato in ruoli ottocenteschi – e le spettatrici, proprio per questo, potevano amarlo, come il suo personaggio, per quanto scontroso, era amato da Jane Eyre. Ma che dire della sua voce? Profonda e sussurrante, raffinata da anni di palcoscenico. Da noi, pressoché sconosciuta, salvo per chi poteva permettersi di seguirne le performance ai festival. Tutti hanno ricordato, in questi giorni, l’intervista che Hurt rilasciò al critico Roger Ebert nel 1988, e lo facciamo anche noi. Ebert ricordava l’osservazione di Lawrence Kasdan (il regista preferito da Hurt, autore dei suoi primi film di successo negli anni ottanta), alla fine delle riprese di Turista per caso (1988), secondo cui Hurt rendeva reale il detto “less is more” (il meno è il più). Memorabile la risposta di Hurt:
Recitare è costruire la punta dell’iceberg. Devi prima costruire ciò che non si vede e poi arrivare alla punta. Alla fine vediamo solo una piccola parte dell’iceberg, ma in realtà è enorme. Questo è difficile da fare nei film americani, dove la filosofia dominante è mostrare l’iceberg intero. […] Mi oppongo all’idea che dobbiamo vivere indirettamente nelle immagini degli eroi del cinema che sanno sempre cosa accadrà dopo: non è così che va la vita.
Ogni personaggio vitale ha una storia precedente che l’ha costruito qual è, ma è bene che questa storia resti segreta, rimanga un fatto interiore d’elaborazione da parte dell’attore. Se si pensa a A History of Violence (2005) di Cronenberg, sembra quasi che Viggo Mortensen applichi la lezione di Hurt, tenendo accuratamente nascosti, finché è possibile, i propri precedenti criminali – e il vero dramma scoppia quando le circostanze lo costringono a rivelarli – ma Hurt, come Richie Cusack, tenta invano di uccidere suo fratello Joey, nascosto sotto il nome di Tom Stall, mascherando dapprima le sue intenzioni sotto una maschera di falsa cordialità. Ne rimane invece a sua volta ucciso, non perché Cronenberg creda in una giustizia superiore e voglia ricavare una sorta di lieto fine, ma perché l’appuntamento con la morte è ineludibile. L’iceberg che ha costruito il personaggio/Joey viene svelato, malgrado tutto: quello del personaggio/Richie resta segreto. Ne affiorano solo accenni terrificanti, che danno i brividi.
Brividi? La parola giunge a proposito per introdurre, ad esempio, il discorso su un film come Brivido caldo (Body Heat), girato da Lawrence Kasdan nel 1981, tratto dal romazo di James Caan, già portato sullo schermo da Billy Wilder in Double Indemnity (1944). Qui non è tanto questione di voce, quanto di fisicità. Hurt gioca col suo corpo, lo esibisce e allo stesso tempo lo nasconde. Spesso viene mostrato di spalle, seminudo, e la mdp ne accarezza l’epidermide, durante gli amplessi con Kathleen Turner. I corpi entrano nella categoria del sogno, ed è un sogno di morte, di doppia morte. Chi era Ned Racine? Un ex-poliziotto, ma non sappiamo altro. Vediamo solo la punta dell’iceberg, vediamo che utilizza il suo corpo come esca per attirare donne sole – disperate, ma soltanto apparentemente. Anche qui Hurt rende un po’ Hurt tutti i suoi partner: al punto in cui vengono mostrate, le loro storie precedenti sono segrete, possiamo solo tentare di indovinarle. È la storia della donna-ragno, Luis Molina, l’omosessuale del film di Hector Babenco (Il bacio della donna ragno, 1985), nella cui regnatela restano avvolti il rivoluzionario Valentin e lo stesso Molina.
La punta dell’iceberg, peraltro, non implica necessariamente un retroterra e uno svolgimento tragico. Turista per caso è un prototipo di commedia, in cui Macon Leary (Hurt), scrittore di guide turistiche per uomini d’affari, offre ai suoi lettori la possibilità di viaggiare senza perdere tempo, anzi, dando loro l’impressione di non essersi neppure mossi da casa. Tutto filerebbe liscio, compresi i problemi con sua moglie Sarah (sempre Kathleen Turner), se Macon non facesse la conoscenza di Muriel (Geena Davis), un’affascinante addestratrice di cani. A lei Macon affida il suo cane, perché lo addestri e gli insegni a obbedire agli ordini (schiocchi della lingua, gesti della mano). Le affida il cane, ma anche se stesso, elaborando così il lutto per la morte del figlio: precedente che non vediamo, di cui ci vengono mostrati solo accenni, desumibili dal comportamento dello stesso Macon.
Un altro cane, dal nome simile, si pone come deus-ex-machina dell’amore tra lo psicanalista Henry Harriston (Hurt), che esercita la sua professione a New York ed è ossessionato dalle pretese dei suoi pazienti, e Béatrice (Juliette Binoche), una bella ragazza che abita a Parigi, in un vecchio appartamento fatiscente. Stiamo parlando di Un divano a New York (1996) di Chantal Akerman. Lo scambio di alloggi, inteso come temporaneo, avviene alla cieca: Henry si ritrova in un posto fatiscente, dove sono sempre in corso rumorosi lavori, e viene assalito da un pretendente di Béatrice, che lo ha scambiato per un suo amante; Béatrice non solo si trova a godere dell’appartamento/studio high-tech di lui, ma eredita il suo cane, nonché i suoi pazienti, ben lieti di considerarla una sia pur temporanea sostituta di Henry.
Il rapporto con Turista per caso è evidente. Tornato a New York per ritirare la sua posta e controllare la situazione, Henry si accorge del maneggio in corso. Non rivela chi è, ma si finge anche lui un paziente, desideroso di farsi psicanalizzare da Béatrice. Il cane, che si è affezionato a lei, viene portato via quasi a forza dalla fidanzata ufficiale di Henry, che forse è un’altra delle ragioni della sua fuga. Siamo nell’universo della commedia “svitata”, talmente svitata che il pubblico la rifiutò in toto, ma è grave che neppure la maggior parte della critica la comprendesse. Le motivazioni del personaggio di Hurt sono, come sempre, largamente enigmatiche. Alla fine, l’unico ad aver capito tutto, come se avesse già visto il film, è il cane.
*In copertina: A History of Violence (Cronenberg, 2005).