Il passo deciso e protervo di una bella ragazza bruna, stretta in una blusa rossa che le modella le forme, percorre lo stradone delle Vele di Scampia, periferia degradata di Napoli. La camera la inquadra dal basso, quindi la segue con un carrello a precedere fino a un campo lungo. Si avverte in quel passo e in quel corpo un fremito magnetico e nel volto della ragazza una sorta di sfida al mondo.
Si tratta della sequenza emblematica di Le occasioni di Rosa (1981), secondo film di Salvatore Piscicelli, interpretato da una attrice esordiente come Marina Suma (che vinse un David di Donatello), concentrato di erotismo e insieme di prorompente istintività. È l’immagine iconica e in un certo senso inaugurale di una filmografia che mentre segue una linea precisa che connette cifra autoriale ad afflato popolare, visceralità a distacco brechtiano, sperimentazione a indagine antropologica, riflessione sulle forme linguistiche a itinerario tra i generi, si configura come un corpus cinematografico che ha imposto con una anticipazione significativa la centralità del paesaggio napoletano che in questi ultimi anni ha caratterizzato gran parte del cinema italiano, ma che ha al contempo costituito un esempio di affondo nelle varie coniugazioni del rapporto realismo/astrazione, anche in questo rivelando uno sguardo anticipatore delle aporie e contaminazioni del cosiddetto “cinema del reale”.
Piscicelli è scomparso a Roma a 76 anni (era nato a Pomigliano D’Arco nel 1948) ed è necessario illuminarne ora più che mai il suo contributo di cineasta singolarissimo, il cui sguardo ad ogni film si è messo in discussione compiendo sorprendenti mutazioni eppure conservando un rigore e una coerenza esemplari. Bisognerebbe partire dal clima culturale e artistico vissuto da Napoli nella crucialità del periodo a cavallo tra il 1980 e il 1981: lo spartiacque è il terremoto dell’Irpinia del novembre 1980. Avvenne come un sommovimento traumatico che liberò energie creative che segnarono la scena di una città coacervo di commistioni tra arcaico e postmoderno. Erano gli anni in cui da un lato Roberto De Simone riscopriva le radici ancestrali della musicalità napoletana, dall’altro si affermava un nuovo “sound” partenopeo, la scena del “Neapolitan Power” di Pino Daniele o James Senese, della “New Wave” musicale di gruppi come i Bisca.
Nel 1980 nella galleria di Lucio Amelio si incontrano per un lavoro comune due “numi tutelari” dell’arte contemporanea come Joseph Beuys e Andy Warhol e a seguito del terremoto lo stesso Lucio Amelio chiama a raccolta i più grandi artisti dell’epoca per trasformare la catastrofe del sisma in forza creativa. Ancora in quegli anni intorno a uno storico cineclub come la Cineteca Altro di Mario Franco si forma una nuova generazione di cinefili e critici. Nel 1981 un piccolo film inventivo come Ricomincio da tre costituisce la rivelazione di un talento di attore-regista come Massimo Troisi. In quegli stessi anni si afferma sulla scena nazionale e internazionale la sperimentazione teatrale della cosiddetta “nuova spettacolarità” con gruppi come Falso Movimento di Mario Martone, Angelo Curti e Pasquale Mari e il Teatro Studio di Caserta capeggiato da un giovane Toni Servillo.
Il primo film di Piscicelli Immacolata e concetta. L’altra gelosia (1979) in questo contesto appare come una specie di epifania di un modo diverso, crudo, post(neo)realista e insieme stilisticamente alto di guardare al paesaggio di Napoli, cominciando dal suo entroterra: quella Pomigliano D’Arco in cui il regista ritrova le sue origini, raccontando con una secchezza e un senso pregni di fisicità e insieme di lucida osservazione, eppure con accensioni tra il melò e la sceneggiata, l’amore furioso e tragico, cominciato in un carcere, tra due donne di estrazione proletaria. Il film vinse il Premio della Giuria Internazionale al Festival di Locarno.
Nel 1985 esce Blues metropolitano, un film corale, dall’impianto “altmaniano”, in cui attraverso l’intreccio di storie e situazioni si costruisce una sorta di musical che traccia un ritratto iperrealista e in presa diretta del fermento del nuovo sound emergente sulla scena napoletana degli anni 80. Come in un ideale travelling i primi tre film di Piscicelli trascorrono dall’hinterland e passando attraverso il paesaggio postindustriale arrivano nel cuore pulsante della città: «In Immacolata e Concetta racconto l’entroterra, ne le occasioni di Rosa siamo in periferia; in Blues metropolitano entriamo nel vivo della città. C’era l’idea di un progressivo avvicinamento a Napoli per raccontarne le trasformazioni a partire dal terremoto, che ha avuto come conseguenza un rivolgimento sociale molto forte e incisivo.» (Piscicelli in Castellano 2024, p. 77).
Si configura così con questa sorta di trilogia un significativo cambio di sguardo su una delle città da sempre più cinematografiche, ma non esente da stereotipi e retoriche e in tal modo Piscicelli pone i presupposti di quello che negli anni a venire sarà il cinema di Martone, di Capuano, di Sorrentino, di Corsicato.
Napoli è la città più filmabile di questo Paese. Basta che piazzi una cinepresa in una strada e giri. È un po' come New York. Non credo ci siano altre città in Italia che abbiano questa evidenza così straordinaria per il cinema. Non è un caso rappresenti, in qualche modo, un luogo deputato del cinema italiano. […] Il rischio con Napoli è lo stereotipo […] La gente è abituata alla cartolina per un verso e per l’altro al colore. Se uno riesce ad andare oltre questi due limiti, conoscendo la città, resta il più straordinario scenario che si possa immaginare.» (Piscicelli in Castellano 2024, pp. 152-153).
Eppure la lezione e l’esempio del cinema di Piscicelli non si limita al suo ruolo di antesignano, di “padre nobile”, anzi questa prospettiva appare anche fuorviante – pur se certe sue asprezze incisive e certi suoi sperimentalismi si ritrovano nei film di Capuano, come un certo suo iperrealismo può ritrovarsi in Sorrentino, così come una sua certa secchezza stilistica la si ritrova nei film di Martone e una certa sua predilezione per le figure femminili forti può ritrovarsi in Corsicato.
Piscicelli ha compiuto (cosa rara nel cinema italiano) un lungo apprendistato da critico, prima a fianco di Lino Miccichè come vice per L’Avanti e nello staff della Mostra del Cinema di Pesaro negli anni ’70, e negli stessi anni scrivendo per Cinemasessanta. Fin da allora si delineano i suoi amori filmici che resteranno punti di riferimento formali del suo sguardo: il cinema giapponese classico di Ozu e Mizoguchi (fondamentali per la sua cifra luministica e per le geometrie delle sue inquadrature, così come per l’osservazione intensa e minuziosa dei dati esistenziali dei suoi personaggi); il grande melodramma americano di Douglas Sirk e quello popolare di Raffaello Matarazzo (entrambi amati quasi con devozione “edipica” e presentissimi in quel suo tessere storie in cui l’accensione passionale e le pulsioni del desiderio si intrecciano con le risonanze psicoanalitiche); l’imprescindibile lezione di Rossellini (leggibile nel coniugare mise en scène e istanza del documento, come nel suo lavoro con gli attori sempre legato al sentimento immediato e flagrante della sequenza, e a cui in Le occasioni di Rosa tributa un omaggio citando la scena della Solfatara di Viaggio in Italia); infine la sua assonanza con il cinema di Fassbinder (prediletto riferimento nel suo lavorare alto e basso, nel suo brechtiano “raffreddare le “incandescenze” e gli impulsi dei corpi, oltre che nel suo raccontare poetico-politico i rapporti di classe e i rapporti di sesso).
Il cinema di Piscicelli allora si può coniugare su tre registri articolati: l’osservazione antropologica, il lavoro stilistico, il gioco intercorrente tra le forme dei generi (dal melò al noir, dal “kammerspiel” al tragico). Così come una triade tematica ricorre nel suo cinema: il lavoro sullo spazio (la biforcazione tra paesaggio urbano e la claustrofobia degli interni), l’identità femminile (e qui risulta essenziale il contributo della sua sceneggiatrice e compagna di vita Carla Apuzzo, che può dirsi vera e propria co-autrice dei suoi film, un po’ come fu per il binomio Straub-Huillet), le ambivalenze dell’eros e gli itinerari del desiderio. Se la periferia napoletana ritorna in Baby Gang (1992) con un piglio picaresco da “favola nera” attraverso gli occhi di un bambino di strada che si muove nel mondo dei piccoli spacciatori, un film come il precedente Regina (1987) si rinserra nell’atmosfera chiusa, torbida, malata del mondo (immerso in un bianco e nero allucinatorio e glaciale) di una attrice di teatro in crisi (una Ida Di Benedetto intensa e febbrile), folle d’amore per un attore di fotoromanzi porno, spingendo sul pedale di un melò esasperato con esito omicida e scolpendo ancora una volta il ritratto di una femminilità trasgressiva e delirante.
Il tema delle potenze dell’eros torna in Il corpo dell’anima (1987) in cui convergono Bataille, Bunuel e lo Svevo di Senilità, coniugando erotismo ed estasi, carnalità e spiritualità, attraverso l’attrazione fatale tra un anziano sceneggiatore, che sta scrivendo un film su Santa Teresa d’Avila, e una prorompente e disinibita cameriera. Emerge in questi due film una ulteriore attitudine di Piscicelli, quella di riflettere sui codici della rappresentazione, sulla forma e la forza del cinema stesso e del suo mettere-in-immagine: «Il cinema moderno dovrebbe lavorare su degli spostamenti di codice che fanno slittare certi meccanismi, ma senza distruggerli del tutto. […] Il mio cinema viene anche molto dalla testa, oltre che dalle viscere e dalla sostanza. […] Forza e forma, diceva, se non ricordo male, Derrida.»(Ivi, p. 96).
Tale riflessione sul mezzo, sulla potenza rispecchiante delle immagini emerge, con un inusitato coraggio sperimentale (di nuovo anticipatore dell’uso delle tecnologie leggere di molto cinema contemporaneo) in Quartetto (2001), una sorta di ronde, girata come un film da camera, intorno a quattro ragazze aspiranti attrici, quasi il film fosse un susseguirsi di “provini” il cui tessuto drammaturgico si costruisce e si autodistrugge da sé, confermando l’assunto godardiano che ogni film è un documentario sul set sugli attori che vi recitano.
Prima di girare quello che sarà il suo ultimo film Vita segreta di Maria Capasso (2019, tratto dal suo stesso romanzo omonimo), in cui sui toni e gli stilemi di un noir metropolitano, e con tagliente crudeltà, traccia di nuovo un ritratto di donna (una veemente Luisa Ranieri) che, nella morsa della paura di restare sola, precipita in un vortice criminale e rivendica (rivolgendosi direttamente al pubblico) la sua trasformazione in assassina, Piscicelli con Alla fine della notte (2003) aveva girato il suo film più direttamente psicoanalitico, concludendo al contempo quel discorso “metacinematografico” che aveva percorso il suo cinema da Regina in poi.
Lo aveva fatto con una sorta di road movie dal sapore wendersiano (il finale con la videocamera brandita come un’arma al pari del finale di Lo stato delle cose) raccontando la ricerca di un padre perduto da parte di un regista-attore (l’indimenticato Ennio Fantastichini) attanagliato da una crisi senza apparente via d’uscita e travolto (quasi fellinianamente) dai ricordi e dai sogni. Nel film il protagonista dice una frase: “I melodrammi sono lo specchio della vita”. È un richiamo all’amato Sirk, certo, ma anche a se stesso, dal momento che il libro di scritti di cinema che ci ha lasciato Piscicelli si intitola, sirkianamente, L’imitazione della vita. E se guardiamo i suoi film possiamo vedervi ora riflessa una intera vita di inesausto e caparbio amore per il proprio lavoro: nello specchio del cinema, che è lo specchio della vita.
Riferimenti bibliografici
A. Castellano, a cura di, La magnifica ossessione. Il cinema di Salvatore Piscicelli, Martin Eden, Napoli 2024.
S. Piscicelli, L’imitazione della vita. Scritti di cinema 1970-2016, Meltemi, Milano 2018.
Salvatore Piscicelli, Pomigliano d’Arco 1948 – Roma 2024.