The Tightrope è il titolo dell’ultimo film di Peter Brook del 2012. Il testamento spirituale di uno degli ultimi grandi maestri del Novecento, scomparso la settimana scorsa. Un’immaginaria “corda tesa” su cui l’attore si muove come un funambolo, a metà tra verità e finzione, idea e materia, teatro e vita. Un movimento in equilibrio che obbliga a spogliare l’azione di qualsiasi orpello per concentrarsi sull’essenzialità di ogni gesto, sulla sua «extra-quotidianità» (come avrebbe detto Grotowski), sul suo carattere pre-espressivo, che precorre qualsiasi significato sociale del nostro essere nel mondo e riconduce ogni atto al suo punto di verità e universalità.

Il teatro di Peter Brook è stato questo e molto altro. Coniugare le grandi eredità dell’antropologia teatrale di Grotowski, Barba e Living Theatre, quelle del teatro epico e politico di Brecht e Piscator, passando per il teatro della crudeltà di Artaud. Una sintesi impossibile che Brook realizza a partire dall’epocale Marat/Sade di Peter Weiss del 1964 (divenuto uno straordinario film tre anni dopo). Il culmine dell’intenso periodo di lavoro presso la Royal Shakespeare Company in cui le intuizioni rivoluzionarie delle prime teorie teatrali di Brook trovano una stupefacente resa espressiva sulla scena. Il teatro è un «empty space» attraversato da corpi che traducono nella contingenza e nell’immanenza uno «spirito» immateriale, «impossibile da giustificare e da mostrare» che è però «l’unica giustificazione per l’evento teatrale» (Brook 1999). Lontano anni luce da qualsiasi deriva performativa delle neoavanguardie, che pure lo influenzarono enormemente, il teatro è un’esperienza straniante che utilizza l’ambientazione manicomiale del testo di Weiss come un archetipo della recitazione stessa, in cui la finzione è un vero e proprio doppio della vita e viceversa. Infine, la scena come spazio di una regia “crudele” che libera lo spettatore da ogni tensione immedesimativa e lo mette di fronte a immagini viventi destabilizzanti attraverso l’illuminotecnica, la violenza dei colori del trucco e dei costumi, gli sguardi e le figure alienate.

Un capolavoro indimenticabile, una delle più grandi opere d’arte del Novecento che Brook decide di fissare nella memoria cinematografica (di cui è stato un significativo interprete a cominciare da Il masnadiero del 1953), intuendo un punto cruciale della riproducibilità audiovisiva dell’esperienza dal vivo, così attuale nel nostro presente: la trasformazione del lavoro sui corpi e sullo spazio in quello sul tempo. Il passaggio cioè, dalla scena all’immagine, da un piano fondato sulla presenza attoriale e il suo movimento ad una dialettica in cui il corpo si presta al fluire impersonale del mythos rendendo possibile la resa cinematografica della temporalità teatrale. La lezione di un maestro che in Italia appresero Luca Ronconi, Carmelo Bene e tanti altri.

Trasferitosi a Parigi negli anni ’70, con la fondazione del “Centre International de Recherches Théâtrales” ai Bouffes du Nord, Brook si apre alle esperienze del Terzo Teatro e inizia il lungo percorso attraverso l’Africa e l’Oriente che lo porterà al Mahabharata nel 1985, anch’esso divenuto un film nel 1989. Nove ore in cui il modello della grande epica induista diventa il mezzo per dare corpo al passaggio dallo spirito alla materia, dall’invisibilità alla visibilità, che è per Brook l’autentica missione del teatro. Esattamente come ne Il principe Costante di Grotowski del 1965, l’attore diventa “santo” perché espone il suo corpo al sacrificio laico della visibilità davanti allo sguardo dello spettatore, all’interno di un’esperienza inconsumabile che si oppone a qualsiasi forma di teatro «mortale» (Ibidem) e di repertorio. Conservando e superando il teatro «ruvido» di Brecht e quello «sacro» dell’antropologia, nella tassonomia de Lo spazio vuoto (il suo testo teorico più importante) Brook propone un teatro «immediato», fluido e in continuo cambiamento (Ibidem). L’immediatezza quale tratto decisivo dell’incessante ricerca dell’essenza del gesto dell’attore che, costantemente in bilico sulla corda tesa, deve trovare l’unica posizione di equilibrio che gli consente di camminare nel vuoto attorno a sé.

Infine i tanti spettacoli shakespeariani, i film (a partire da Il signore delle mosche del 1963), le opere liriche (da Bizet a Mozart), fino all’ultimo The Valley of Astonishment, capolavoro sinestetico del 2014 e meditazione sensoriale sul cervello umano e la sua meraviglia, resa tangibile attraverso una complessa drammaturgia visiva e sonora che, come in passato, è in grado di produrre gesti di una radicale essenzialità all’interno di un costante processo di sottrazione.

Immagini, pensieri, emozioni della lezione unica di uno dei più grandi giganti di un secolo indimenticabile che ha cambiato radicalmente la storia del teatro. Di quella stagione straordinaria non ci sono più Brook, Grotowski, Bene, Beck, Malina e tanti altri. Rimane fortunatamente Eugenio Barba, sempre attivissimo, libero e indipendente come lo furono tutti gli altri, eterni ragazzi di un Novecento irripetibile.

Riferimenti bibliografici
P. Brook, Lo spazio vuoto, Bulzoni, Roma 1999.

Peter Brook, Londra 1925 – Parigi 2022.

Share