All’indomani della scomparsa di Paul Auster, avvenuta lo scorso 30 aprile al termine di una lunga malattia, è difficile non ripensare ai suoi ultimi mesi di vita come a un conto alla rovescia, lo stesso del titolo del suo funambolico 4321 (2017); nel romanzo, la vita di un uomo si ramifica in quattro direzioni diverse a causa di variazioni minime che finiscono per imprimere cambiamenti talvolta radicali alla sua personalità e al suo destino. Oltre al duplice raddoppiamento delle narrazioni, però, il countdown segnala anche il progressivo diradarsi delle possibilità: man mano che il romanzo della vita si assottiglia si avvicina la pagina finale, dove ogni esistenza immaginabile sarà ricondotta alla singolarità del punto di arrivo. Da tempo malato di cancro, lo scrittore settantasettenne era più che mai consapevole che «la vita si fa morte, ed è come se quella morte avesse posseduto questa vita da sempre». Così scriveva nella prima pagina dell’Invenzione della solitudine, una riflessione introspettiva scaturita dall’improvvisa scomparsa del padre nel lontano 1982, all’inizio di quella che si sarebbe rivelata una lunga carriera; e queste parole avrà avuto in mente durante la stesura dell’ultimo romanzo, Baumgartner (2023), storia di un anziano filosofo che non riesce a superare la perdita dell’amata moglie, romanziera e traduttrice.

Ciò nonostante, Auster ha preferito lasciar immaginare la fine a noi lettori. Baumgartner finisce infatti senza finire, con un cliffhanger che ci abbandona in bilico sul precipizio, in attesa di un ultimo atto che solo la vita con la sua brutalità sarebbe stata in grado di scrivere: «E così, con il vento in faccia e il sangue che ancora gli sgocciola dalla fronte, il nostro eroe parte in cerca di aiuto, e quando arriva alla prima casa e bussa alla porta, si apre il capitolo finale della saga di S.T. Baumgartner». Queste le ultime parole del romanzo che, pur lasciando presagire una fine imminente, rimandano al nome del protagonista e quindi al titolo, invitandoci a ricominciare la lettura. Se 4321 è il romanzo-mondo della vita straripante, narrazione che imbocca ogni bivio esplorando anche le strade non prese e le esistenze alternative, Baumgartner è un’opera intimista e consapevolmente postuma, un testamento letterario appena sussurrato che, a ben guardare, è anche una summa di riflessioni scaturite nel corso di una carriera lunga quasi cinquant’anni che l’autore ci invita così a ripercorrere.

I trentaquattro libri di Auster costituiscono infatti un corpus organico e conchiuso, uno spazio mentale dove rimbalzano personaggi, situazioni, dettagli, frasi che di volta in volta cambiano segno e direzione dando vita a una sorta di glossario, un alfabeto austeriano che il narratore combina in modo sempre diverso a beneficio del lettore. Leggere Auster equivale a percorrere in equilibrio precario un territorio straniante eppure familiare, dove la città si fa geroglifico e “parla” allo scrittore che, al pari del lettore, deve farsi detective per decifrarne il linguaggio elusivo. La “musica del caso” – titolo di un altro suo fortunato romanzo – può essere udita e apprezzata ma mai compresa fino in fondo, per quanto l’artista provi ad annotarne la partitura sul taccuino rosso, o a percepirne le frequenze attraverso il telefono rosso, o addirittura a scriverne il significato coi propri passi, danzando sulle strade della città-geroglifico nel tentativo di penetrarne l’essenza ma riuscendo solo a formare le parole “Tower of Babel” e ribadire così l’ineluttabilità della cacofonia. 

Riflettendo a posteriori sul proprio lavoro, Auster vi ha riconosciuto «una specie di alternanza tra opere complesse e labirintiche e altre più semplici e “dirette”, perché ovviamente “continuità” non vuol dire univocità». Di volta in volta, lo storyteller ha saputo sperimentare con parole, situazioni e personaggi che “rimano” tra loro, partendo da un genere letterario e approdando a un altro completamente differente, scoprendo il mistero tra le pieghe del realismo come in Mr. Vertigo (1994), dove il protagonista impara a levitare, oppure togliendo al fantastico ogni aura straniante come nella narrazione di Timbuctù (1999), filtrata dalla coscienza di un cane. Infine, Auster è riuscito a costruire complesse architetture fatte di cornici, trame e sottotrame supportate da un’impalcatura di note a piè pagina e cementate da continui rimandi interni ed esterni, in una serie infinita di scatole cinesi che il lettore, stanza dopo stanza, è chiamato a percorrere, come ne La notte dell’oracolo (2003) e in Uomo nel buio (2008). «Ogni idea ne scatena decine di altre», ha detto a Gérard de Cortanze in una lunga e affascinante conversazione pubblicata da minimum fax nel 1997 col titolo Una menzogna quasi vera, per poi precisare: «Gran parte dei miei romanzi assume la forma della biografia di qualcuno». 

Un’altra strada possibile è allora quella di considerare la sua produzione narrativa una lunghissima “biografia immaginaria” dell’artista, dove persino nei romanzi più fantasiosi e metanarrativi emergono tracce autobiografiche – ricordi, sogni, aspirazioni, traumi, rimpianti, possibilità irrisolte. «Ed è lì che la storia comincia, nel tuo corpo, come nel corpo finirà tutto», avverte il narratore di Diario d’inverno (2012), che si rivolge a se stesso dandosi del tu e accomunandosi quindi al lettore, perché in ultima analisi il nostro corpo è «sede di fatti che sono stati espunti dalla storia». Come nella realtà, così nella fiction, ci conforta individuare nel chaosmos alienante della realtà o nell’intimità a volte altrettanto straniante del nostro io un dettaglio familiare o un nome noto, una serie di patterns che ci permettono di unire i puntini e formare costellazioni di senso nella precarietà dell’esistenza

Bisogna però fare attenzione a non spingere troppo in là questo processo, avverte Auster già nell’Invenzione della solitudine, perché «in un’opera narrativa, si presuppone che dietro le parole scritte vi sia un’intelligenza cosciente. Invece di fronte agli eventi del cosiddetto mondo reale non si presuppone nulla. La storia inventata consiste totalmente di significati, mentre la storia reale è scevra di ogni significato oltre se stessa». Quando scorgiamo una connessione tra due eventi apparentemente casuali nelle nostre vite abbiamo «la tentazione di attribuirgli un significato», quasi fossimo personaggi di un romanzo. «Il rapporto esiste», conferma Auster, «ma dargli significato, guardare oltre il semplice dato del suo esistere, vorrebbe dire costruire un mondo immaginario all’interno di quello reale». Il rischio, in altre parole, è di incappare nella paranoia messa in scena da tanti testi postmodernisti, dove il personaggio si perde in un labirinto di segni che non riesce più a decodificare. È quello che succede a Quinn, lo scrittore-detective di Città di vetro – primo racconto della Trilogia di New York (1985-6) – che pur di non accettare l’informità del non-senso (e quindi l’inutilità del suo ruolo di investigatore) decide di inventarsi un significato in modo arbitrario, condannandosi così a sparire tra le pagine di una fiction. Né gli servirà chiedere aiuto a “Auster”, l’alter-ego autofinzionale dell’autore, perché nemmeno lo scrittore è in grado di controllare fino in fondo la propria opera.

È altresì difficile situare con precisione Auster nel panorama letterario statunitense perché, come avviene per i grandi autori, la sua scrittura rifugge da ogni categoria. Nel periodo trascorso in Francia come traduttore e poeta ha saputo coniugare la scarnificazione comico-metafisica operata sul linguaggio da Beckett e Kafka con le sperimentazioni linguistiche di stampo postmoderno di Alain Robbe-Grillet e degli esponenti del Nouveau Roman, ispirandosi anche ai simbolisti francesi e ai classici della tradizione letteraria americana. Non a caso Auster considera Melville «il più grande romanziere nella storia della letteratura americana», autore a sua volta di romanzi “inclassificabili” che «non hanno niente a che vedere con la letteratura americana». Da Poe, invece, Auster eredita il fascino per i labirinti della psiche, ma anche il gusto ludico dell’enigma da decifrare, nonché un’attenzione ai meccanismi della ricezione editoriale che pochi hanno saputo padroneggiare come lui. Di Hawthorne ha il gusto per l’affabulazione e la capacità di instaurare un rapporto di fiducia col lettore creando personaggi e narratori autobiografici in grado di mettere in scena la fiction della sincerità. A Don DeLillo, suo grande amico, con cui condivideva la passione per il baseball, è dedicato Leviatano (1992), uno dei romanzi più belli e “politici” di Auster; l’epigrafe è però tratta dal filosofo trascendentalista Emerson e afferma: «Ogni stato esistente è corrotto». 

Non bisogna dimenticare, infatti, che Auster è stato anche – come i suoi predecessori ottocenteschi – saggista, polemista e biografo. Per omaggiare Stephen Crane – che alla fine del diciannovesimo secolo ha denunciato con prosa nitida e sferzante le storture della società americana, dal degrado della Bowery, quartiere malfamato di New York, alla violenza barbarica della Guerra Civile – Auster ha firmato una potente biografia, Ragazzo in fiamme (2022), che ripercorre la tragica vicenda dello scrittore naturalista col piglio di un romanzo. Inoltre, prima di cimentarsi con la stesura di Baumgartner, ha pubblicato un saggio intitolato Bloodbath Nation (2023), corredato da fotografie realizzate dal genero, il fotografo Spencer Ostrander. Come si intuisce dal titolo, l’opera contiene un’aspra invettiva contro il dilagare delle armi da fuoco e le leggi che ne regolano la vendita e il possesso negli Stati Uniti, in cui l’autore esamina le cause e le conseguenze della violenza che la “nazione di pistoleri” – per citare la famosa espressione usata da Richard Slotkin nel suo omonimo saggio – infligge ogni anno a se stessa. 

Posizionato com’è tra Ragazzo in fiamme e Baumgartner – tra la breve e intensa vita di Crane, stroncato dalla tubercolosi a ventott’anni, e la serena vecchiaia malinconica del filosofo finzionale Baumgartner – il libro-pamphlet testimonia ancora una volta l’impegno civico di Auster e la sua incredibile versatilità, che gli ha permesso di spostarsi con estrema disinvoltura dal romanzo controfattuale al memoir intimistico, dalla detective story alla fantascienza post-apocalittica, dal saggio di attualità alla biografia letteraria, dalla poesia alla sceneggiatura per il cinema, mantenendo sempre uno sguardo lucido sulla realtà contemporanea. Nell’era della post-verità, e in vista delle elezioni presidenziali che “minacciano” un secondo mandato alla Casa Bianca del più prolifico creatore americano di bugie e fake news dopo P.T. Barnum, le “menzogne quasi vere” della fiction di Auster – probabilmente l’ultimo grande affabulatore della scena statunitense – rappresentano un salutare viatico

Riferimenti bibliografici
P. Auster, Una menzogna quasi vera. Conversazioni con Gérard de Cortanze, Minimum Fax, Roma 1998.     
Id., Trilogia di New York, Einaudi, Torino 2014.     
Id., Diario d’inverno, Einaudi, Torino 2015.
Id., L’invenzione della solitudine, Einaudi, Torino 2015. 
Id., Leviatano, Einaudi, Torino 2018.  
Id., Baumgartner, Einaudi, Torino 2023. 


Paul Auster, Newark, 3 febbraio 1947 – New York, 30 aprile 2024.

Share