L’adorato professore di Letteratura italiana del liceo mi disse “Ecco, Ilaria, è per te. Di questo scrittore, che molti considerano a torto un autore di genere, in futuro si parlerà sempre più spesso”. Mi porse un libro blu, di piccolo formato. Era il luglio del 1997 e quel libro era La forma dell’acqua di Andrea Camilleri, edito da Sellerio. Quel libro era il regalo per il mio diploma di maturità classica, conseguito con il massimo dei voti e un cuore gonfio di serenità. Avevo 18 anni, 19 li avrei compiuti solo in inverno inoltrato, ero fiera, devota allo studio e sicura, ancora nel mio mondo sicuro. Nel 2002, quando La forma dell’acqua venne inserito in uno dei Meridiani di Andrea Camilleri, il fatto non destò in me grande scalpore né incredulità, l’uso sapiente della lingua, la tenuta dell’immaginazione, la riflessione sul dialetto mi avevano rapita.

Alcuni, però, non la pensavano così, ci si accapigliava per molto meno nella Biblioteca di Italianistica dell’Università “La Sapienza”, figuriamoci per la pubblicazione di un Meridiano dedicato a un autore vivente (privilegio di pochi) e in più scrittore dedito a un genere considerato “minore”. Nel frattempo ero diventata meno fiera e sicura, ma sempre devota allo studio. Nelle lunghe discussioni con altri laureandi e studenti sapevo da che parte schierarmi: Andrea Camilleri meritava il suo Meridiano. Negli stessi anni mia zia, che risiede in una regione diversa dalla mia, aveva preso l’abitudine – che ha ancora – di spedirmi o darmi a mano i libri che aveva amato di più: nel gruzzoletto dei libri belli che lei, avida lettrice onnivora, desiderava condividere con me per sentirci più vicine, i titoli di Andrea Camilleri aumentavano di volta in volta, diventando sempre di più.

Andrea Camilleri si era infiltrato nei gangli affettivi delle mie radici più care: la scuola, lo studio, la famiglia. Poi sono venute tutte le volte che l’ho ascoltato dal vivo, nel corso delle Fiere e degli appuntamenti editoriali che mi capitava di frequentare, alla radio, in televisione. L’ultima volta in cui l’ho ascoltato in presenza rispondeva con la proverbiale ironia e saggezza alle domande di Marino Sinibaldi, in uno dei loro bellissimi incontri a due. E poi con mia madre, entrambe fumatrici, ci siamo sempre sentite un pizzico meno in colpa nell’accendere una sigaretta se in quel momento stavamo ascoltando la sua incredibile voce: se Andrea Camilleri fuma, allora vuol dire che si può sedere dalla parte giusta del mondo anche se sei un fumatore. Nel tempo, poi, mi sono resa conto che quel signore siciliano si era insinuato nelle case, nelle famiglie, nel cuore di molti italiani e che era uno di quegli scrittori considerati intraducibili e che invece, nonostante l’evidente difficoltà, all’estero veniva tradotto eccome e anche parecchio studiato.

Andrea Camilleri credo sia stato questo non per me, ma per il nostro paese, per tanti di noi. Qualcuno che nel tempo, con una vivacità tutta speciale, con le sue storie e con le sue parole si è insinuato nelle nostre case, nelle nostre famiglie, fra i nostri affetti, diventandone parte, in una relazione continua con la società e con il proprio paese. E oggi questo mi sembra una rarità per uno scrittore e un intellettuale. Andrea Camilleri si è inserito nel solco della nostra letteratura dialettale, che nei secoli ha dato esiti altissimi sia in poesia che in prosa, inserendosi a pieno titolo nella riflessione linguistica propria del nostro Novecento letterario, lì dove il rapporto tra lingua e dialetti s’interseca alla politica, alla società, ai valori incarnati.

Le storie del commissario Salvo Montalbano non sono forse, ogni volta, una riflessione profonda sul senso della giustizia? Non abbiamo intravisto in quelle narrazioni la necessità di evitare i tranelli della coscienza, i falsi indizi della quotidianità, le lusinghe del qualunquismo? Salvo Montalbano, apparentemente così scanzonato, non ci propone in verità l’equazione primaria secondo cui la giustizia e la civiltà vanno di pari passo? Difficile considerare questi temi, queste riflessioni e il dialetto che le veicola come “minori”.

Nell’ebraismo il ricordo è una pratica presente e attiva, non contemplativa. Il ricordo attivo di quella persona ricrea nel mondo, privo ormai di quell’individuo, i doni che possedeva, le sue potenzialità e virtù. Ricordare una persona vuol dire tenere vive le sue passioni e la sua direzione di pensiero, così da illuminare la via da percorrere per chi resta. Ricordiamo allora la sua posizione sui fatti di Genova 2001 e sui migranti, ricordiamo la sua capacità da scrittore di stare fra le persone, mai separato dalla società ma, anzi, a essa fittamente intrecciato, ricordiamo la sua simpatia, la generosità, la passione profonda per la nostra lingua e per i dialetti, ricordiamo la sua competenza, ricordiamo il suo costante impegno civile. Ricordiamolo e nel presente avremo sempre fra le mani la direzione giusta da percorrere e la luce necessaria a illuminarla.

Andrea Camilleri.
Il commissario Montalbano (Sironi, 1999-).
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