“Perché i libri di Yehoshua sono tutti belli…?” si chiedeva Nanni Moretti in Aprile (1998), mentre era in procinto di affrontare uno degli eventi più magnifici ma anche misteriosi di ogni esistenza, la nascita di un figlio. I libri di Abraham B. Yehoshua sono così, tutti belli e rivelatori di quel mistero percepito ogni volta che le pagine di un libro dischiudono la grande eco della Letteratura. Quella voce indefinibile, eppure potente e nitida, che vibra quando si legge un grandissimo scrittore, in tutta la sua unicità.

Era la fine degli anni novanta quando lessi L’amante (1977), poi non ho più smesso di leggere i suoi libri, come d’altronde è capitato a tanti altri lettori e critici italiani. Abraham B. Yehoshua è stato infatti amatissimo, letto e tradotto nel nostro paese, un amore durevole e ricambiato, a tal punto che l’ultimo libro pubblicato in vita, La figlia unica (2021), è ambientato in Italia – e che, lo ammetto, da figlia unica di padre ebreo ha smosso e interrogato la mia identità.

Quando lessi L’amante, l’Italia era un paese in cui il multiculturalismo iniziava appena a emettere i primi singulti, dove la società percepiva a fatica il quesito del dialogo con l’alterità come un’urgenza. Mai dimenticherò le pagine di quel libro che catapultarono la mia adolescenza in una realtà, quella israeliana, in cui la necessità del dialogo era letteralmente vitale, come d’altronde lo è tutt’ora. Quel libro rese la realtà israeliana e la letteratura un unico corpo, per me che ero stata in Israele, e lo fece nel segno di una scrittura perfetta che prendeva la forma della narrazione a più voci (allora quasi inedita, se si pensa che quel romanzo è stato scritto circa alla metà degli anni settanta). Le spire di quel libro mi catturarono, le sue pagine avevano una forza magnetica, quasi magica, alla quale era impossibile resistere per la profondità di linguaggio e la capacità immaginativa, metaforica, che abbracciava temi immensi come la relazione di coppia, l’amore, la guerra, la morte.

Ma c’era un elemento che, più degli altri, colpì il mio cuore, ed era come quel libro mettesse al centro il tema del dialogo come sostanza dell’esistenza e insieme della letteratura, come se ogni relazione e lo stesso stare al mondo imponesse di non rinunciare mai a perseguire e ricercare le forme del dialogo, come unica possibilità di salvezza e di ricomposizione del proprio animo.

Ma Yehoshua è andato ben oltre la letteratura, traslando tutto questo nell’impegno civile, insieme a David Grossman e Amos Oz, gli altri due scrittori israeliani che in Italia – e non solo – hanno incarnato e incarnano quella linea letteraria e insieme politica del dialogo. Israele, con i suoi conflitti, la sua società ontologicamente multiculturale in cui l’essere profugo o migrante è la normalità, in cui la guerra è realtà, è forse quanto di più lontano dalla società italiana degli anni ottanta e novanta, ripiegata su se stessa, sonnacchiosa, del tutto impreparata alla complessità politica della globalizzazione degli anni duemila. I libri di Yehoshua, tutti i suoi libri, rivelano una vitalità quasi disarmante, uniti a un pensiero nitido, persino classico, se si pensa alla statura morale e alla perfezione marmorea della scrittura, che sa essere al contempo vitale, come se si stesse formando in quell’istante, e impeccabile nella sua compiutezza. Di questo, non scordiamolo mai, dobbiamo essere grati anche alle traduttrici e ai traduttori che si sono succeduti negli anni e senza i quali non avremmo potuto leggere i suoi libri, Un divorzio tardivo (1982), Cinque stagioni (1989), Il Signor Mani (1989), Ritorno dall’India (1997) e i molti altri che si sono succeduti nel tempo.

Abraham B. Yehoshua è stato capace di essere uno scrittore rivoluzionario nelle forme della narrazione e al tempo stesso creare insieme a Grossmann e Oz – ognuno con la propria peculiarità – un canone della letteratura israeliana della seconda metà del Novecento, senza rinunciare a incarnare l’essenza più alta di quell’intellettuale civile di cui ogni paese ha un disperato bisogno per conservare intatto l’ideale della politica. Yehoshua ha offerto alla sua lingua, l’ebraico moderno, che incarna una storia particolare, il dono di forme letterarie nuove, andando oltre i territori già esplorati da grandissimi scrittori del calibro di Shmuel Yosef Agnon, rivelandone altre e diverse potenzialità. Yehoshua ha scritto anche saggi e opere teatrali, alcune delle quali tradotte e andate in scena anche nel nostro paese (ricordo una serata al Teatro Argentina di Roma, con un pubblico ammaliato dalla sua pièce, compresa me).

L’ultima volta che l’ho ascoltato dal vivo è stato qualche anno fa all’Accademia di Spagna a Roma per un incontro piuttosto ristretto di riflessione sulla diaspora degli ebrei sefarditi. Yehoshua poneva l’attenzione su come l’identità ebraica fosse sopravvissuta e quali vie avesse percorso ma personalmente credo che, ragionando sul passato, stesse ragionando anche sul presente. «E noi nell’ultima guerra abbiamo perso un amante», scriveva. Noi, negli ultimi giorni, abbiamo perso un grandissimo scrittore e mai potremo ripagarlo di ciò che ci ha donato.

*Tutti i romanzi di Abraham B. Yehoshua sono pubblicati in Italia da Einaudi.

Abraham B. Yehoshua, Gerusalemme 1936 – Tel Aviv 2022.

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