L’opera multiforme di Ryūichi Sakamoto (1952-2023) abbraccia un campo di interessi molto vasto e si snoda lungo un arco temporale altrettanto esteso, frutto di sessant’anni di carriera, se si include il periodo di apprendistato musicale. Sakamoto viene avviato agli studi di composizione nel 1962, quando l’insegnante di pianoforte (che lo segue dall’età di sei anni) gli consiglia di seguire le lezioni di Taminosuke Matsumoto. Nel corso degli anni sessanta, mentre approfondisce lo studio di Bach, Mozart, Beethoven, Schubert, Schumann, Brahms, Debussy e Ravel, viene folgorato dall’ascolto dei Beatles e di Antônio Carlos Jobim. Da qui una naturale vocazione per una ricerca artistica molto inclusiva, capace di spaziare dalla musica pura a quella applicata, dalla composizione strumentale alla forma-canzone, dall’ambient al pop, dal jazz alla world music.
La prima composizione originale documentata di Sakamoto risale al 1967, si intitola The Song of the Sleeping Wind ed è ispirata al poema di Takahashi Yoshimoto, filosofo della Nuova Sinistra giapponese; la figlia di quest’ultimo, la famosa scrittrice Banana Yoshimoto, ha descritto la musica di Sakamoto come «un immenso universo contemplativo». Al raggio d’azione davvero «immenso» del compositore si è già fatto cenno; molto interessante è il secondo aggettivo, «contemplativo», perché se c’è un elemento che caratterizza sempre la musica di Sakamoto è il lavoro sulle pause, sui vuoti attorno ai quali si dispongono cellule tematiche ripetitive.
Si tratta dunque di un compositore sostanzialmente antinarrativo, più incline alla circolarità che alla linearità; soltanto il cinema, a volte, lo porta a visitare strutture retoriche più convenzionali e a concedere un vero e proprio sviluppo al materiale melodico, basti pensare al crescendo del tema principale di Omicidio in diretta (De Palma, 1998). Più spesso, però, finge di assecondare uno sviluppo e invece lo aggira e lo elude costantemente, come nell’enigmatica partitura realizzata per Piccolo Buddha (Bertolucci, 1993), un continuo mostrarsi e nascondersi dell’intenzione tematica, o ancora di più nel tema completamente destrutturato di Revenant – Redivivo (Iñárritu, 2015), con un processo di riduzione che separa le già scarne frasi melodiche con pause solenni.
“La musica non dovrebbe essere troppo narrativa”, disse Sakamoto a proposito della partitura di Revenant – Redivivo, ma questa considerazione si potrebbe applicare all’intera opera del Maestro giapponese, che in un’altra occasione ha dichiarato di non amare “la maggior parte della musica che pretende di raccontare o spiegare storie”. Del resto, Sakamoto scrive sempre la musica prima delle riprese, dunque di fatto non commenta e non spiega nulla, casomai evoca, immagina qualcosa che non c’è, e questo carattere produttivo dell’immaginazione si connette a «una visione interna, come potere di vedere l’assente, sia esso ricordato o inventato» (Ferraris 1996).
Un esempio particolarmente noto, e che dunque ci consente di mostrare alcuni dei procedimenti compositivi del musicista giapponese, è costituito dal tema di Furyo (Ōshima, 1983), che nasce come un brano strumentale a sé stante che prenderà il titolo internazionale del film di Ōshima (Merry Christmas, Mr. Lawrence); successivamente, attraverso una collaborazione con David Sylvian, il brano diventa la celebre canzone Forbidden Colours. Se timbricamente il brano esibisce un colore orientale, emulando alcune sonorità della tipica orchestra gamelan, a livello armonico c’è una profonda immersione nel mondo di Debussy. Pensiamo al fatto che il brano è in tonalità di Si bemolle, e dunque ci aspetteremmo che cominciasse con l’accordo di tonica (Si♭m7), mentre il primo accordo è di sottodominante, pertanto non si riesce a capire la tonalità del brano ascoltandone solo l’inizio: l’ambiguità tonale debussiana è proprio uno degli obiettivi costanti della ricerca musicale di Sakamoto, che dal Maestro francese ha derivato anche l’approccio all’orchestrazione, studiando per anni il secondo movimento di La Mer. Altrettando studio ha dedicato a Ravel, se pensiamo alla parafrasi e alla citazione diretta del Boléro nella colonna musicale di Femme fatale (De Palma, 2002), altra struttura assai poco cinematic in senso narrativo.
Il cinema mainstream, in realtà, è stato per Sakamoto una grande opportunità ma anche una delusione. Da una parte, comporre musica per film lo ha gratificato ogni volta che ha preso atto di quanto le sue composizioni influenzassero la produzione di immagini: è accaduto con Bertolucci, che si faceva spesso “guidare” dalla musica di Sakamoto in fase di montaggio. D’altra parte, però, il compositore giapponese a un certo punto dichiarò che “le colonne sonore non hanno mai determinato un grande mutamento nella risposta del mio pubblico tale da giustificare i sacrifici che ho dovuto sostenere per realizzarle”.
Già nel 1993, dunque, nonostante i numerosi riconoscimenti ricevuti per il suo lavoro nel cinema (fra cui l’Oscar per L’ultimo imperatore), Sakamoto comincia a concentrarsi maggiormente sulla musica assoluta e, pur tornando ogni tanto alla musica applicata, seleziona progetti più piccoli come Derrida (Dick, Ziering Kofman, 2002) o The Staggering Girl (Guadagnino, 2019), con poche quanto significative eccezioni (i già citati film di De Palma e Iñárritu). Sakamoto, adoratore di Jean-Luc Godard con cui rimpiangeva di non aver mai collaborato, vedeva nel cinema un processo immaginativo altro, esterno a sé, e pur rimanendone affascinato lo sentiva come un limite al potere di vedere liberamente l’assente: “Quando si riceve un’eccessiva quantità di input dall’esterno, la propria mente non può creare immagini interiori”.
Riferimenti bibliografici
M. Ferraris, L’immaginazione, Il Mulino, Bologna 1996.
M. Milano, Ryuichi Sakamoto. Conversazioni, Arcana Editrice, Padova 1998.
Ryūichi Sakamoto, Tokyo 1952 – Tokyo 2023.