C’è stato un momento in cui il nome di Laurent Cantet è sembrato destinato a mutare le sorti del cinema francese in modo radicale. Tra la fine degli anni novanta e l’inizio degli anni duemila, i suoi primi film hanno rivelato un linguaggio innovativo, in grado tanto di assorbire gli smottamenti del nuovo cinema digitale quanto di mantenere un legame autentico con la tradizione francese (dalla Nouvelle Vague a Maurice Pialat). Risorse umane (Ressources humaines, 1999) e A tempo pieno (L’emploi du temps, 2001) hanno saputo mostrare un’attenzione profonda rivolta a un mondo del lavoro in rapida trasformazione, segnato da dissidi sociali, tensioni economiche, manifestazioni pubbliche, riuscendo a raccontare con grande intensità i cambiamenti in atto. 

Ancora oggi Risorse umane appare come un preciso atto di posizionamento da parte del suo autore, il quale sceglie di raccontare l’universo della fabbrica da un determinato punto di vista: quello delle persone comuni, di coloro che subiscono le decisioni altrui e che tuttavia, di fronte ad esse, non si arrendono. Sul tavolo, il tema delle 35 ore settimanali, del lavoro in nero, ma anche dell’occupazione come possibile agente di mobilità sociale. Franck, il giovane protagonista, viene assunto all’Ufficio risorse umane, tra coloro che all’epoca erano chiamati “colletti bianchi”, nella stessa fabbrica in cui il padre è operaio da trent’anni. Accanto al tema delle disparità di classe, ecco emergere un ulteriore tassello proveniente dallo sguardo partecipativo di Cantet: il rapporto tra generazioni, tra giovani e adulti, tra modalità diverse di guardare alla società nel medesimo momento

Già prima di Risorse umane Cantet aveva dimostrato una forte adesione al contesto giovanile con i cortometraggi realizzati subito dopo il diploma all’IDHEC, l’Institut des Hautes Études Cinématographiques, conseguito nel 1986. Tous à la manif! (1994) e Jeux de plage (1995) avevano il pregio di dichiarare un sentimento di vicinanza, un sostegno alle iniziative e agli ideali del gruppo di protagonisti. Tous à la manif! in particolare racconta un ulteriore esempio di distanza tra giovani e adulti, mettendo in scena il difficile rapporto tra un adolescente impiegato nel bistrot di famiglia e il padre, impegnato più nel ruolo di datore di lavoro del ragazzo che di genitore. Risorse umane non farà che ampliare e intrecciare ancor più tale groviglio di sentimenti, distanze, ruoli.

Nel 2001, con A tempo pieno, Cantet inaugura la lunga collaborazione alla sceneggiatura con Robin Campillo, già presente in qualità di montatore nei precedenti film. In quest’opera, visivamente tra le più raffinate dell’autore, Cantet sceglie di portare al cinema un evento di cronaca che pochi anni prima aveva sconvolto l’intera Francia: il caso di Jean-Claude Romand che, nel 1993, aveva sterminato la sua famiglia uccidendo moglie, figli e genitori, dopo una vita passata a mentire. L’anno prima, nel 2000, Emmanuel Carrère aveva narrato la vicenda di Romand nel suo romanzo L’avversario (L’Adversaire, 2000), adattato per il cinema nel 2002 dalla regista Nicole Garcia.

Al centro della vicenda delineata da Cantet vi è soprattutto la principale tra le menzogne di Romand: quella relativa alla sua professione di medico. All’insaputa dei suoi familiari, l’uomo ha infatti abbandonato gli studi in medicina senza conseguire alcuna laurea, fingendo in seguito di essere ricercatore presso l’OMS. Ogni giorno esce di casa per recarsi in un ufficio che, di fatto, non esiste. Cantet decide tuttavia di operare una messa in scena della storia secondo un preciso punto di vista. A tempo pieno rivela non solo il castello di falsità costruito dal protagonista e destinato di lì a poco a sgretolarsi in modo drammatico, ma soprattutto l’onta sociale, la vergogna che impedisce a Romand (qui rinominato Vincent) di ammettere il proprio fallimento, prima di tutto professionale. Le immagini indugiano sul tempo passato in auto dal protagonista, sul vuoto che riempie le sue giornate, la sua mente. L’emploi du temps, ossia l’occupazione, il lavoro, assume qui un significato letterale, legandosi al modo in cui si percepisce il tempo nel suo trascorrere.

La storia scivola lontana dagli accadimenti di cronaca, per restituire un quadro d’insieme più complesso, stratificato, universale, che riguarda il senso del tempo o, meglio, il che cosa determina il senso del tempo che viviamo. Cantet rivelerà in seguito di aver trovato ispirazione nel romanzo di Annie Ernaux dal titolo Gli armadi vuoti (Les Armoires vides, 1974), in cui la giovane protagonista è costretta a un costante confronto con se stessa in merito alla decisione di abortire in una Francia in cui l’aborto è ancora illegale. Dal romanzo, Cantet coglie il senso di vergogna e l’impossibilità per la protagonista di condividere con altri i propri sentimenti. Ancora una volta, a rivelarsi nel film è un lavoro percepito come obbligo sociale, condizione a cui risulta impossibile sottrarsi, se non a rischio di una decostruzione identitaria. Memorabile rimane la sequenza in cui è la moglie a scomparire immersa nella nebbia, per ritornare poco dopo chiedendo al marito: “Temevi di avermi persa?”.

Dopo A tempo pieno, il percorso di Cantet conosce nuove direzioni, ampliando interessi e ambiti in cui portare il proprio linguaggio e i nodi nevralgici del suo cinema. Nel 2005 viene distribuito Verso il sud (Vers le sud, 2005), segnato dall’eleganza di Charlotte Rampling nel ruolo di protagonista e da un racconto che, a uno sguardo attento alla realtà di Haiti, unisce il tema del turismo sessuale. Sono le tre donne americane a cercare la compagnia dei giovani locali, lasciando emergere come a regolare tali relazioni sia soprattutto il divario economico e la classe di appartenenza.

Del 2008 è invece il film più noto di Cantet: La classe – Entre les murs (Entre les murs, 2008), destinato a riportare la Palma d’Oro del Festival di Cannes a un regista francese dopo più di vent’anni da quella conseguita da Maurice Pialat per il film Sotto il sole di Satana (Sous le soleil de Satan, 1987). Adattamento del romanzo scolastico di François Bégaudeau, insegnante e protagonista del film, La classe – Entre les murs riporta i giovani a figure d’elezione. Al centro della vicenda troviamo ancora una volta modalità e tentativi di costruzione di un’identità, personale tanto quanto collettiva. Ambientato nel XX arrondissement di Parigi, La classe – Entre les murs rappresenta la scuola dei sobborghi, delle zone difficili della capitale francese. Uno spazio da cui emerge la necessità di integrazione, di unione di più culture diverse.

Il film si sviluppa attraverso una costante provvisorietà formale, un’instabilità visiva, una precarietà di direzione che caratterizza prima di tutto la vita dei protagonisti. Il microcosmo scolastico, l’influenza delle banlieue, la presenza di una realtà multiculturale come quella francese diventano “le mura” entro cui erigere una narrazione vitale, dinamica, dunque problematica, della vita giovanile. La scuola mostra inoltre il proprio carattere di cantiere, di laboratorio in cui osservare la trasmissione di conoscenze, il formarsi di personalità, ma anche il difficile costituirsi di una collettività. L’inquadratura finale della classe vuota si lega in tal senso a doppio nodo con la fabbrica vuota mostrata al termine di Risorse umane: lavoro e istruzione, i pilastri per scardinare “caste” e “classi”, appaiono qui congelati in due inquadrature affini che, nel loro silenzio, amplificano un senso di crisi e di paralisi sociale.

Anche nelle successive opere, quali Foxfire – Ragazze cattive (Foxfire, confessions d’un gang de filles, 2012), Ritorno a L’Avana (Retour à Ithaque, 2014), L’atelier (2017) e Arthur Rambo – Il blogger maledetto (Arthur Rambo, 2021), sulle controverse dinamiche identitarie dettate dai social media, Cantet continua una esplorazione di ambiti e tematiche quali la disuguaglianza tra individui e l’esclusione culturale, rimarcando come essere testimone della contemporaneità non possa prescindere da una investigazione profonda delle dinamiche relazionali ed economiche, dei conflitti etnici e di classe, nonché delle loro ripercussioni interiori. In tal senso, una continuità di sguardo con l’opera di Cantet è rinvenibile, tra gli altri, nei primi lavori di Abdellatif Kechiche, in Welcome (Id., 2009) e Tutti i nostri desideri (Toutes nos envies, 2011) di Philippe Lioret, in La legge del mercato (La Loi du marché, 2015) e In guerra (En guerre, 2018) di Stéphane Brizé, così come nel cinema di Céline Sciamma, in particolare nel suo Diamante nero (Bande de filles, 2014), e negli ultimi lavori di Ruben Öslund. 

La grande capacità di Cantet rimane quella di aver saputo intercettare le faglie di una realtà in rapida mutazione, rimanendo sempre dalla parte di coloro che rivendicano un diritto, denunciano una disparità, accusano una ineguaglianza, e facendo emergere il valore del collettivo. Nelle sue opere, ha saputo sviluppare una critica radicale al sistema capitalista e a un contesto lavorativo sempre meno interessato alla persona come entità singola. Anche il suo ultimo progetto, dal titolo The Apprentice, si sarebbe dovuto sviluppare lungo le medesime coordinate. 

La morte inattesa di Cantet ci priva di uno degli sguardi più attenti e risoluti in merito al racconto delle nostre modalità di vita. La sua eredità è allora un metodo di osservazione capace di comprendere e narrare in modo acuto i gangli del reale, il suo funzionalismo apparente, le sue modalità organizzative standardizzate, il suo efficientismo di maniera, interrogandosi prima di tutto su come ognuno di noi utilizzi la risorsa più importante a disposizione: come impieghiamo il tempo che viviamo?

Laurent Cantet, Melle 1961 – Parigi 2024.

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