Fin dal cinema muto nel volto ravvicinato di un attore si compendiano emozioni e sensi provenienti da una sfera sottile che emerge nei tratti somatici come nella presenza di colui che li trasporta sul piano filmico. Lo sapevano bene Dreyer, Bresson, Bergman, tutti cineasti in cui il trascendente si rende visibile nell’immanenza dell’acting e della ripresa. Lo hanno mostrato Scorsese, Schrader, Ferrara. Non a caso cineasti in cui il corpo attorico viene anatomizzato secondo linee iconiche che temperano la carne e lo spirito, e non a caso tutti e tre hanno eletto più volte ad incarnazione di tale “aura” un attore singolarissimo come Williem Dafoe, cui la Berlinale ora tributa un omaggio, con premio e retrospettiva. Attore nei cui tratti come scolpiti nel legno di una nordica immagine devozionale, si legge una endiadi di oscuro mistero e di grazia estatica che fa pensare ai personaggi di Dostoevskij. Ma anche una concrezione fiammante e carnale che rimanda ai dipinti di El Greco.

Piccolo e nervoso, felino e trasfigurato, i tratti del volto affilati, inquieti, perturbanti, Dafoe porta con sé l’atmosfera che si è come trasferita mesmericamente a personaggi difficilmente cancellabili, sospesi tra la terra e il cielo, fluttuanti, come in un disegno di William Blake, tra il cielo e l’inferno. Il Cristo tentato di Scorsese, l’indemoniato spacciatore o il corpo sacrificale di Rolfe o l’idrofobo e adrenalinico “Cane maledetto” nei film di Schrader (Lo spacciatore, 1992; Affliction, 1997; Cane mangia cane, 2016), le allucinate e sinistre anime perdute in cerca di redenzione e traffici oscuri dei film con Ferrara (New Rose Hotel, 1998; Go Go Tales, 2007). Eppure Dafoe è stato capace anche di virare al grottesco nero certe sue apparizioni, come in Cuore selvaggio (1990) di Lynch, o in eXistenZ (1999) di Cronenberg, o nel Goblin degli Spider-Man di Raimi. Avvolto da cattiveria e candore, colpa e innocenza, come tenero vampiro o angelo caduto, travolto da maledizione persecutoria e da esaltato o assorto richiamo celeste, devoto o forsennato, il modo di incarnare i personaggi da parte di Dafoe arriva, diretto come il vibrare di una freccia, alla sensibilità dello spettatore. E il suo essere timido e ritroso nella vita conferma il rigore e la forza del suo essere attore. Un attore capace di immergerci in un sogno inquietante, come di risvegliarci bruscamente a un anelito di realtà carnale.

«Il migliore sforzo dell’uomo si compie in una sorta di sogno, mentre è Dio il solo fabbricante della realtà», ha scritto Nathaniel Hawthorne nel capitolo The Daguerreotypist del romanzo La casa dai sette abbaini. L’irruzione improvvisa del trascendente nell’immanenza della vita e del reale, l’ansia di una credenza riversata nell’essere gettati nel fango del mondo e il dibattersi entro un demonismo proiettivo che suggella la maledizione dell’illusione e dell’immagine, l’isteria spettrale che fa da contraccolpo al rigido resistere all’irrealtà, hanno radici nella stagione puritana del trascendentalismo americano con le sue dicotomie gnostiche tra bene e male, macchia e purità, demiurgia e accecante visione dell’inconoscibile “volto di Dio”. Per i trascendentalisti «il male è il sogno in cui si muove l’uomo, l’irrealtà, l’immaginario. Da questo sogno l’uomo deve destarsi, per vivere nel reale che Dio gli porge. Il male è assenza di realtà: nasce quando ci si abbandona al demonio, il retore astuto che nutre di fantasticherie» (Zolla 1963, p. 15). Perciò William Blake aveva incitato a ripulire le “porte della percezione”.

Su tale nucleo profondo dell’occidente, e dell’occidente anglo-americano, sta lavorando in modo potente un regista di teatro come Romeo Castellucci, con la Societas Raffaello Sanzio. In particolare nei suoi recenti spettacoli, abbacinanti di “chiarificazione” percettiva, di scarnificazione turbinosa dell’icasticità allegorica, come Democracy in America (2017) su materiali di Tocqueville o i precedenti Sul concetto di volto del figlio di Dio (2010) e Four Seasons Restaurant (2012). Questi ultimi fanno parte di un ciclo sotto il titolo complessivo di Il velo nero del pastore, che trae ispirazione da un folgorante racconto di Hawthorne, The Minister’s Black Veil del 1836. Una nuova versione “revisionata” di questo pezzo (già debuttato in una prima versione a Reggio Emilia nel 2011) è andata in scena di recente a Napoli, all’interno del festival “Quartieri di vita”. Qui non a caso l’interprete, direi ancora l’incarnazione come unica presenza scenica, era proprio un eclatante, intensissimo Williem Dafoe. Le allegorie romanzesche, gli intarsi misteriosi dei tales di un maestro come Hawthorne, rifulgono e si stagliano, come nel rosso scuro e profondo di un rubino, in quel vasto campo del simbolico, in quello sterminato orizzonte di visione e di reale, in quella distesa narrazione del moderno che è la letteratura americana otto-novecentesca; in un processo di identificazione in cui le aporie dello sguardo gettato nell’abisso nero del reale emergono nella veste di idee personificate, di esperienze di vita riassunte in un geroglifico inciso nell’autocoscienza del mondo: Poe, Melville, Hawthorne, James.

Nel Velo nero del Ministro il binomio volto-velo, il celare, il ri-velare, la cifra nascosta nel gesto e nella cosa, la potenza dell’invocazione, della parola fatta carne, dello stigma nella voce che si slancia dai recessi di un buco nero verso l’alto, l’inspiegabilità dell’essere al mondo, diventano grande letteratura, ma anche grande, imperscrutabile visione. Il pastore Hooper si presenta agli astanti con un velo nero sospeso sul volto. Il volto celato dal crespo nero che lascia parlare solo la “bocca d’ombra” del ministro di Dio, in un’apparizione e un segno non proferibile e misterioso, in un aderire perfetto e inquietante di visibile e invisibile, si presenta davanti al nostro sguardo nel pezzo teatrale di Castellucci in una omelia totalmente esposta e nascosta, presente e assente (che sembra provenire anche da Beckett) e che si esaurisce e insieme si ripercuote, si intensifica e si discarna nel corpo-voce attorico di Dafoe.

Si entra in una chiesa del Trecento, Donnaregina Vecchia, che parrebbe ideale ambiente per Murder in the Cathedral di T.S. Eliot con le sue volte gotiche e i suoi echi austeri (risuonano inni liturgici in cui  insistono tanto un mistero cattolico, di ascendenza gregoriana, quanto un responsorio luterano), si prende posto sulle panche, si diventa astanti di un rito e di una omelia che percorre, in forma crucifera, in profondità e in verticalità, tutta la chiesa. Dafoe è al leggio, ma attraversa anche lo spazio, suscita la luce e si immerge nel buio, ma soprattutto appella dal fondo nero e invisibile, suscita visioni non rappresentabili, suoni inauditi, irriducibili esortazioni, punti di presa incommensurabili. Siamo nello stesso tempo come immersi in un sogno allucinato e risvegliati ogni volta a una visione che è connessa a uno “strappare il velo”. Ma le cortine dell’invisibile aderiscono e insieme si trasfondono con un visibile oltre se stesso, un’immagine oltre l’immagine. Dice Castellucci, nel programma di sala: «Se si potesse riassumere questo spettacolo in una frase si potrebbe dire che qui viene mostrata non la storia di un uomo, bensì quella di un pezzo di vetro oscuro, usato come specchio per riflettere e filtrare l’immagine dell’immagine».

Il nostro essere partecipi e distaccati dall’indecifrabile che appare e si cela, dal volto-velo, è reso dall’essere forniti all’ingresso da un “libretto di meditazione”. Libretto nero segnato da una croce dorata e con la dicitura “Preparatory Meditation” con cui si segue, insegue e persegue ciò che il corpo e la voce di Dafoe, che ci sono prossimi e distanti, testimoniano e ci chiamano a intravedere per subito, proprio nella “dischiusura” (direbbe Jean-Luc Nancy), racchiudersi su di sé, entro di sé, per poi esporsi nella nudità della presenza e dello spazio. Castellucci ha lavorato sulla mancanza e sul celare, nello spirito hawthorniano. Ciò che nel racconto è non detto, qui viene sentito ed esposto per meglio celarsi. Le parole del pastore risuonano inudibili nel fondo di sonorità inondante lo spazio, eppure le leggiamo nel breviario e le ascoltiamo da quella voce di un volto nascosto. E una delle domande cruciali è: Che cosa si nasconde dietro un volto e che cosa dietro un velo? Che cosa trapela dal volto di un attore e che cosa cela un velo, uno schermo, un sipario? Le prime parole, del breviario e dell’attore, sono: Nessuno si illuda. Eppure solo dietro il Velo di Maja ci è dato di vedere la realtà. Dietro il volto di un attore, per speculum in enigmate, dice San Paolo, traspare il volto di un dio.

Riferimenti bibliografici
N. Hawthorne, Il velo nero del ministro in Racconti, Garzanti, Milano 1977.
Id., Hawthorne, La casa dai sette abbaini, Mondadori, Milano 2001.
J.-L. Nancy La dischiusura. Decostruzione del cristianesimo 1, Cronopio, Napoli 2007.
E. Zolla, Le origini del trascendentalismo, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1963.

*In anteprima e in copertina una foto di Salvatore Pastore. 

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