Tutta colpa del ventitreenne Orson Welles. Se il 30 ottobre 1938 non ci fosse stata quella trasmissione radiofonica che ha trasformato l’ennesima puntata del ciclo CBS The Mercury Teatre on The Air (una sceneggiatura di Howard Koch che attualizza un vecchio libro di Herbert George Wells sull’invasione della Terra da parte dei marziani) in uno scherzo di Halloween fin troppo riuscito, non avremmo avuto il primo caso di isterismo di massa causato da un mass medium (cittadini statunitensi  che reagiscono ad una fiction come se si trattasse di informazione giornalistica) e dunque neanche la nascita della moderna psicologia delle comunicazioni di massa (libro di riferimento, datato 1940: Hadley Cantril, The Invasion from Mars, sottotitolo A Study in the Psychology of Panic).

Wells, Welles: è bastata una vocale di troppo per segnare il passaggio epocale dal romanzo La guerra dei mondi (uscito nel 1898, quando ancora Méliès è fermo a La lune à un mètre) alla finta diretta di The War of the Worlds (prodotta nel clima prebellico creato dall’invasione nazista dell’Austria, la cosiddetta Anschluss del  12 marzo 1938), madre di tutte le fake news dell’epoca mediatica (mentre già Marc Bloch aveva studiato le “fausses nouvelles”, classico esempio di oralità alla deriva, attraverso la sua esperienza nelle trincee della Grande Guerra). Ma certo, questo fenomeno di trasmissione veloce “di bocca in bocca” – così veloce da generare la metafora delle “voci che corrono” – conferma la base comune delle false notizie nel circuito delle trincee con la diffusione del panico dall’etere alle arterie della nazione: il primo mezzo di comunicazione di massa è la massa.

La radiofonia aguzza la vista: il “tam-tam tribale”, che McLuhan associava ai deliri di Hitler, trasforma quello che nel programma di Welles è chiamato “la cosa” (the thing) in un oggetto volante non identificato ma con una forma specifica, quella del “disco” , icona che si diffonde negli anni cinquanta (del 1956 è il film intitolato Earth vs. the Flying Saucers). Il carattere “mitico” dell’audionarrazione si risolve nell’improvvisa visibilità della cosa dell’altro mondo: nel 1947 c’è il primo avvistamento ufficiale di un disco volante, ovviamente negli Stati Uniti; nel 1952 viene introdotto l’acronimo UFO, dopodiché l’ufologia assurge a rango di pseudoscienza popolare seconda solo all’oroscopia odiata da Adorno. Il fenomeno degli avvistamenti è talmente diffuso che Carl Gustav Jung, lo stesso anno del suo saggio sulla schizofrenia (1958), pubblica Un mito moderno (sottotitolo Le cose che si vedono in cielo) in cui conia l’espressione “diceria visiva”: le false notizie di Bloch non sono più voci che corrono ma dischi che volano, allucinazioni capaci d’impressionare pellicole fotografiche e cinematografiche.

È la viralità prima della virologia: anche se la scoperta di agenti infettivi più piccoli dei batteri risale al 1898 (curiosamente l’anno d’uscita del romanzo di H.G. Wells, che si apre con la celebre immagine del microscopio poi ripresa da Spielberg nella sua versione di La guerra dei mondi), ci vuole il 1940 per avere una visione diretta attraverso un microscopio elettronico; di progresso in progresso, nel 1976 il virus Ebola è visibile al mondo grazie alla microfotografia a scansione elettronica (SEM). Nel villaggio globale vaticinato da McLuhan, in cui fattore costitutivo è la velocità di trasmissione (l’intuizione è del filosofo Matteo Vegetti, che sposta all’epoca dell’aria – che vuol dire spazio, etere, cosmo – le considerazioni di Carl Schmitt sul rapporto terra/mare), era inevitabile che la semiotica del virus s’incrociasse con la biologia dell’informatica; è così che nel 1984, anno orwelliano, l’espressione “computer viruses” compare per la prima volta in un saggio accademico – anche se Wikipedia ci avvisa che essa si trova già nel film del ’73 Il mondo dei robot (esordio alla regia del romanziere Michael Crichton, quello di Jurassic Park).

Il terzo millennio, ormai votato alla velocità dei collegamenti in rete, si apre con la paura infondata del millennium bug e il pericolo reale dello script virus “I love you” (ah, l’umorismo degli hackers!) e va avanti fino al worm più rapido della storia: nel 2004 Slammer impiega quindici minuti warholiani per infettare metà dei server che tengono in piedi Internet, spegnendo il numero d’emergenza 911 a Seattle, incasinando i servizi telematici di alcune compagnie aeree e soprattutto mettendo fuori uso i bancomat Bank of America.  Il malware è il male: come si arriva ad un’accezione positiva della viralità trasmissiva e comunicativa?

Nel 1998 l’espressione “viral marketing”, attribuita alla società californiana Draper Fisher Jurvetson, opera la svolta: che una campagna di comunicazione non convenzionale possa sfruttare la capacità comunicativa di pochi soggetti iniziali per trasmettere un messaggio a un numero elevatissimo di utenti finali, seguendo una modalità di diffusione con andamento esponenziale, è visto come il massimo sviluppo possibile dell’antica arte del passaparola “di bocca in bocca”. Un esempio è il caso del film Cloverfield (Reeves 2008) supportato dal sito www.1-18-08.com e dalla piattaforma Myspace, così come esempi di “guerrilla marketing” sono la campagna Sky a supporto della serie Romanzo criminale (2008) e un decennio prima la leggenda metropolitana diventata il blockbuster The Blair Witch Project (1999).

La viralità – cioè la capacità di propagazione che una volta era espressa da metafore risalenti alla cultura contadina, come la parola latina propaganda e la parola inglese broadcasting – è l’effetto da ottenere nel mercato postmoderno, dominato dallo storytelling e dalla gamification: le storie virali, definite dal sociologo Joseph Sassoon come i racconti di marca capaci di diffondersi in modo esplosivo nel web, sono la nuova frontiera della creatività pubblicitaria e forse della creatività tout court (si pensi al caso di Maurizio Cattelan).

Diventare virale: questo è il destino di ogni “immagine condivisa” (lo specifico della fotografia digitale secondo il sociologo André Gunthert), di ogni parola buona o cattiva lanciata “nello sciame” (Byung-Chul Han); questo è il desiderio di ogni apprendista stregone alla Orson Welles – a cui sfugge che l’effetto invasione fu non voluto, non pianificato, non previsto e misterioso come un contagio psichico. Diventare influencer: questo è il sogno di ogni ragazza che intuisce il potere economico dell’immagine (anche la parola “immagine” ha un suo senso specifico per gli scienziati del marketing) all’interno dell’universo sovrannumerario e rizomatico del web.

Ma forse adesso il meccanismo si è inceppato: con il protagonismo del Coronavirus, la non-metafora che si diffonde “di bocca in bocca” (il primo mezzo del contagio di massa è la massa) con la premoderna potenza di un agente patogeno microscopico (ma è dai tempi di Chernobyl che l’essenziale è invisibile agli occhi), la denotazione epidemiologica prende il sopravvento sulle metafore comunicazionali, togliendo fascino a tutto un lessico che va da “trasmissione” (adesso associata ai droplets più che al tasto condividi) a “influenza” (adesso associata alla spagnola e all’asiatica piuttosto che a Chiara Ferragni). Contrordine, compagni di social: la viralità non è più una virtù.

Riferimenti bibliografici
A. Bazin, Orson Welles, Edizioni il Formichiere, Milano 1980.
C.
Bellini, C. Carriero, Influencer marketing, Hoepli, Milano 2019.
A. Camera, M. Pagani, Viral Marketing, Hoepli, Milano 2019.
J. Sassoon, Storie virali, Lupetti, Milano 2012.
M. Vegetti, L’invenzione del globo, Einaudi, Torino 2017.

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