La pestilenza attanaglia Tebe. Edipo è impegnato a cercare le cause dell’epidemia. Sarà – come gli riveleranno gli oracoli – lui stesso il colpevole inconsapevole. Lui ha ucciso il padre Laio e ne ha sposato la moglie Giocasta, sua madre. La sua colpa è inconsapevole e involontaria. È un destino tragico quello che lo sovrasta e lo porta all’accecamento e all’erranza.

È una condizione letteralmente tragica quella che sta al cuore dell’epidemia che stiamo vivendo. È la minacciosità dell’umano che prescinde da ogni consapevolezza e responsabilità. Tant’è che il conduttore del contagio può essere un “portatore sano”, e dunque inconsapevole e innocente.

La colpevolezza potenziale dell’uomo risiede nella sua natura, nella sua stessa corporeità, che diventa veicolo, trasmissione, medium del virus. La colpa risiede dunque in ciò che, sottraendosi ad ogni volontà, attraversa le vite di ognuno di noi togliendole al loro controllo. Ma se la colpa tragica riguardava soggetti in posizione esposta, “superiori a noi” – come pensava Aristotele –, quella del virus è orizzontale, ignora posizioni sociali e gerarchie, concerne la vita stessa che ci attraversa. E definisce dunque il momento angosciante in cui il tragico riguarda la vita indiscriminata e si trasforma nell’ironico. E nell’ironico la colpa, diffusa, è inemendabile (e il mondo diventa una “prigione”, come dice Frye).

La tragedia della vita si declina allora come ironia della vita, per cui la minaccia, la malattia, la morte, riguardano l’atto stesso che dovrebbe generare la vita: quello che porta a superare la chiusura e l’unicità del corpo, che fa sì che un corpo si accosti ad un altro, lo abbracci, si accoppi. La vita può essere generata solo dall’accoppiamento di due corpi. In questo momento, il dare vita si trasforma nel rimanere in vita, nella sopravvivenza. Il carattere tragico del presente è dunque questo: la vita appare come destino, e la natura come colpevole. E se la natura è colpevole, se i corpi sono colpevoli, non c’è emendazione, che è possibile solo se la colpa è personale.

Come viene esorcizzato questo racconto tragico di un destino che incombe e disarticola soggetti e comunità? In quali modi – davanti a ciò che non è facile guardare – si sono orientati sentimenti, pratiche di vita, visioni del mondo, che sono altrettante forme generiche?

Il primo modo è epico, e dunque necessariamente retorico. È l’epos del ricostituirsi dell’unità della nazione, con i suoi eroi (il personale sanitario), i suoi simboli (le bandiere), i suoi slogan (“Uniti ce la faremo”). Il richiamo qui è anche alle passate imprese belliche e non, dimenticando che in queste c’era l’identificabilità del nemico e la sua malevole volontà da contrastare. Qui nulla di tutto questo. Nel racconto epico rientra anche il ruolo del comandante in capo (il premier), capace di difendere in tutti i modi la comunità dalle minacce che l’assediano (proteggere la vita delle persone, sostenere la sanità e l’economia).

Il secondo modo è commedico, è  il più popolare, quello che prevede un happy end, e che è sintetizzabile nell’hashtag “Andrà tutto bene”. Qui il senso è chiaro. Come in una commedia, le cose finiranno bene, la società potrà ritrovarsi in un abbraccio finale. È il racconto più naturalmente aggregante. Soltanto che in questo caso l’oppositore da sconfiggere non è esterno ma interno, non è visibile ma ci attraversa invisibile, è incluso nella vita stessa.

Il terzo modo identifica lo psico-sociale, ed è fondato sulla nozione di responsabilità. Qui in gioco c’è l’appello a svolgere ognuno il proprio compito. Questo appello talvolta sconfina in una implicita accusa: non si è mai così responsabili come si dovrebbe essere. Ci si appella ad una sorta di responsabilità illimitata. All’irresponsabilità ingovernabile del virus ci si oppone imputando responsabilità (e implicitamente colpe) ai singoli. In conseguenza di questo si emanano direttive e si costruisce un controllo capillare dello spazio e del movimento degli individui.

Mai come in questi casi i modi del racconto articolano prassi e sentimenti che attraversano e compongono la vita individuale e sociale. E mai come in questi casi vediamo come le abituali risposte emotive, pratiche e narrative a ciò che stiamo vivendo, si rivelino insufficienti a comprendere la situazione. E se da un punto di vista medico per frenare la diffusione epidemica non si può fare ora altro che fare ciò che si sta facendo, è anche vero che la traduzione politica di questa condizione sanitaria tende a nascondere qualcosa di più radicale, che il tragico antico riesce a spiegarci meglio di altri.

Ci nasconde quello che è effettivamente in gioco in questa epidemia: l’espropriazione dell’illusione dell’umano come controllo e come dominio, come responsabilità e volontà. La forza contagiosa e distruttiva di un vivente parassitario, che parte dall’animale, fa della “natura” l’artefice del destino, e dà alla  “persona” il ruolo ancillare di attore di una drammaturgia imprevedibile e radicalmente impersonale. E dunque non sembra credibile neanche quel racconto di una interiorità raccolta nel silenzio della casa a pensare a se stessa, capace di cogliere questa fase come un’opportunità di non si sa bene cosa.

Quello che sta manifestando questa epidemia è esattamente l’opposto, è la radicale esposizione dell’umano ad un “fuori” radicale ed incontrollabile, che mette in questione ogni possibile perimetro “personale” e “intimo”, perfino religioso. La passeggiata del Papa per via del Corso a Roma è stato di fatto un segno vuoto, inefficace da un punto di vista simbolico.

Le attuali posizioni in gioco rispondono a questa condizione di espropriazione tragica dell’umano in due forme.

Una tesa all’insularizzazione e all’isolamento per “annullare” il virus. È la posizione maggioritaria, orientata alla costruzione di una immunità sociale quando quella sanitaria non c’è. In gioco è qui un paradigma esemplarmente biopolitico e immunitario: salviamo ora i corpi, alle anime penseremo dopo. Una seconda tesa invece ad “includere” il virus nella vita sociale per depotenziarne gli effetti. Quella che è stata chiamata, in termini più o meno propri, “immunità di gregge”. Questa ci colpisce perché vediamo in essa una mancanza di cura per la vita della singola persona. Ma quello che questa posizione porta con sé è di fatto la possibilità di usare il virus, di tenere conto della sua presenza, ed attraverso la potenza della comunità eliderne con il tempo gli effetti distruttivi, mantenendo attiva la potenza della vita sociale. Qui è in gioco un paradigma più esplicitamente comunitario.

Nel caso dell’insularizzazione sociale, il potere di un dispositivo immunitario troppo potente rischia di segnare in maniera indelebile le forme di vita, e di funzionare come dispositivo anche in assenza della minaccia stessa: dalla Cina giunge la notizia che, nonostante l’assenza di nuovi contagi, continueranno – per prevenire il ritorno del virus – sia la quarantena sia il controllo dei confini.

Con l’isolamento sociale, siamo di fronte ad una radicale affermazione del potere del “dentro” (l’interno, la casa) contro un “fuori” totalmente minaccioso  (gli altri corpi, l’aria, l’aperto), con l’alimentazione della “paura” come leva d’azione. Nel caso dell’“inclusione” del virus (immunità di gregge o meno), il “fuori” è qualcosa di cui bisogna tener conto, non può essere esorcizzato. E la sostanziale mancata interruzione della vita sociale comporterà che il virus venga incluso – senza soccombere alla paura – come operatore di un futuro rafforzamento della società, anche se nell’immediato questo potrebbe comportare un numero maggiore di vittime.

Tutto questo ha un carattere inevitabilmente traumatico per le nostre vite individuali e sociali. Trauma determinato anche dalla crescita esponenziale dell’epidemia per l’effetto dei media, che amplificano il numero di contagiati e di morti di quel “villaggio globale” che è il mondo. Il carattere pandemico di questo contagio, rispetto al carattere sterminatore di altri (pensiamo alla Spagnola) risiede in primo luogo nel racconto “spettacolare” del numero di morti (grafici, numeri, pallini) a cui siamo sottoposti, alimentato da un immaginario apocalittico.

Ma se sapremo elaborare il trauma, questa sarà anche una opportunità. Opportunità nel tener conto sempre della potenza della vita che ci eccede, ci sovrasta, ci distrugge spesso, e si sottrae ad ogni controllo. Vita che non è pura od impura, sana od infetta, ma è appunto vita indifferente che si genera distruggendo e si distrugge generando. E dunque vita che non ha bisogno di muri. E la nostra comune umanità è nel condividerla questa vita, come l’ultimo Leopardi ci ha detto (in questi giorni troppo spesso dimenticato a vantaggio del Manzoni della peste).

E compito della politica sarà riuscire a fare comunità, costruire una “vita-in-comune” sospendendo il paradigma “immunitario”, attraverso l’attivazione di politiche pubbliche, in ambito sanitario e non solo, rivolte a tutti ed inclusive. Se sapremo fare questo, questa crisi sarà un’occasione. Se il problema sarà solo “cancellare il virus”, allora le tracce di questo trauma resteranno e i suoi effetti saranno duraturi.

Riferimenti bibliografici
Aristotele, La poetica, Mondadori/Fondazione Valla, Milano 1982.
R. Esposito, Immunitas, Einaudi, Torino 2015.
N. Frye, Anatomia della critica, Einaudi, Torino 2000.
G. Leopardi, Poesie e prose, a cura di M. A. Rigoni, Mondadori/“I Meridiani”, Milano 1991
Sofocle, Edipo re, Feltrinelli, Milano 2013. 

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