«L’indifferenziato dell’esperienza e del sentire, l’indifferenziato che è fuori di noi» (Celati 2022, p. 96), è questo che per tutta la vita ha cercato Gianni Celati, nei romanzi, nei saggi come anche nei documentari (si veda lo straniante Visioni di case che crollano, del 2003). Ma che cos’è il fuori? Non è il fuori dell’ambiente esotico e sperduto, il facile e scontato fuori che tutti sappiamo dove trovare all’altro capo del mondo. Il fuori che cerca Celati è quello che appunto chiama, con una espressione molto precisa, l’indifferenziato, ossia quel fuori – che è sempre qui, accanto e dentro di noi – dove le parole e i concetti non fanno più presa, e il mondo si presenta come un evento impensabile e indicibile. Il fuori è allora «qualcosa che non possiamo rappresentare» (ibidem). E non perché non siamo ancora in grado di pensarlo, come se fosse un fuori temporaneo, che una futura ricerca scientifica ci potrà spiegare e rendere del tutto comprensibile. Si tratta piuttosto di un fuori radicale che mostra la pochezza del nostro sapere e del nostro sguardo. Il fuori del mondo, che invano cerchiamo di ridurre alle nostre povere parole, il fuori che fugge via senza nemmeno accorgersi della nostra presenza. Un fuori inafferrabile proprio perché cerchiamo di afferrarlo.

[Infatti] per rappresentarlo in ogni caso dovremmo ricorrere a categorizzazioni dell’esperienza, che annullano il suo carattere indifferenziato. Di qui tutte le strategie stranianti della scrittura moderna per sfuggire alla rappresentazione categorica, anzi, per indicare i suoi limiti, la sua mancanza di fondamento. D’altra parte, però, è come se ora fossimo sempre più decisamente in balia delle rappresentazioni categoriche del reale, che non dell’esterno indifferenziato. La gente non è neanche più in grado di credere che noi sappiamo ben poco, o quasi niente, su quello che ci circonda, e che abbiamo solo minuscole isole di conoscenza, a cui ci teniamo aggrappati attraverso le abitudini. C’è la tendenza a credere che la scienza possa spiegare tutto, e dunque basti intervistare l’esperto per sistemare gli avvenimenti fuori di noi. […] L’idea più diffusa è che, dal momento che gli esperti possono applicare dei nomi a qualche fenomeno, questo voglia dire che sanno di cosa stanno parlando. Certi giorni mi sembra che la gente non possa distrarsi un secondo: che debbano tutti stare così aggrappati alle categorie verbali con cui spiegano la realtà, da non avere più il tempo di vedere niente. Ho l’impressione che, se si distraessero tutti assieme anche per qualche minuto, crollerebbe il mondo (ivi, pp. 96-97).

È il linguaggio, allora, la posta in gioco del fuori. Un linguaggio di cui non possiamo fare a meno, ma allo stesso tempo è il principale ostacolo per riuscire ad entrare in contatto con l’indifferenziato, cioè con la pura esperienza del mondo che infatti non sa che farsene delle nostre differenze e delle nostre categorie. Una esperienza che per essere pura deve essere un’esperienza con il fatto stesso del mondo, non con il pensiero del mondo. È questa assoluta estraneità del fuori che Celati, in questo libro bellissimo e pieno di sorprese, non smette mai di provare a toccare. Un fuori che ci appare quando ci accorgiamo che quello che diciamo lascia il mondo del tutto indifferente, perché il mondo del fuori è senza parole e senza concetti.

In quel momento ci rendiamo conto che c’è il mondo, e che il mondo è sempre al di là, è sempre oltre e fuori: «Deve esserci, all’inizio, un avvenimento che mi mette in una situazione d’emergenza e di gioco rispetto a tutto ciò che percepisco. Occorre un minimo evento che alteri il tono emotivo del mondo già dato. Questi eventi ci permettono di percepire l’esterno come se lo vedessimo per la prima volta» (ivi, p. 97). Una prima volta che è anche, e immediatamente, l’ultima, perché la visione del fuori è intollerabile, e quindi subito dopo cerchiamo di riportare quel fuori dentro le nostre parole, nei concetti che ci sono familiari e che ci danno l’illusione di poter capire tutto. Ma naturalmente il fuori è fuori proprio perché nessuna parola lo può esaurire.

Ma perché questa passione per il fuori? Perché solo nel fuori possiamo finalmente uscire da noi, dalla nostra cosiddetta interiorità e incontrare, finalmente, la splendida e terribile verità del mondo. Perché, come scrive Belpoliti nella sua Introduzione, è «l’amore per il mondo» il tema che attraversa tutti questi testi. Un mondo che non smette di attenderci, perché il mondo è paziente e buono, mentre le nostre parole non fanno che allontanarlo e renderlo invisibile: per questo, continua Celati, «ho nostalgia d’un sentire che vada al di là dei concetti, perché mi sembra d’essere senza sentimenti che non siano già chiusi nei concetti e infognati nei cattivi pensieri. Ho nostalgia d’un tono narrativo che mi leghi ad un ambiente, perché tutto quello che so scrivere sono cose separate dalla vita degli altri» (ivi, p. 99). C’è tutta una poetica in queste poche parole, un’idea di scrittura e di vita, cercare il fuori del mondo, cercare di stare a casa nel mondo. Per Celati questa ricerca è, in particolare, quella che prende forma in una scrittura, come dice lui stesso, “affettuosa”, cioè una scrittura sensibile che non giudica il mondo, in cui «fantastico e reale non si escludono» (ivi, p. 75).

In effetti in ogni parola è contenuto una sorta di giudizio sul mondo, anche nella più innocua, perché la parola prova a introdurre distinzioni e differenze nell’indifferenziato del mondo. Si tratta allora di cercare una scrittura capace di preservare l’inassimibilità del mondo, il suo rimanere sempre al di fuori:

 Solo se ci si scioglie da questa volontà di garantirsi, la scrittura può affidare il suo dire all’aperto. E l’avventura allora è quel punto di rischio al di là del quale tutte le protezioni per garantirci contro l’equivoco e il malinteso non funzionano più. Bisogna tendere ad un punto in cui l’equivoco e il malinteso non siano più aspetti da temere, perché fanno parte del gioco: perché si realizza un gioco d’accordo con l’accidentale, con l’accidentalità del divenire, con tutto ciò che può accadere nello spazio (ivi, p. 101).

. È questo “aperto” che la scrittura di Celati non ha mai smesso di cercare, una scrittura che vuole uscire da sé, verso il mondo: «Avventura è ciò che viene a noi, liberandoci dalle chiusure concettuali» (ivi, p. 100). In effetti perché il mondo sia occorra che non ci sia più l’ingombro della soggettività, di quell’io così invadente che cerca invece sempre di affermare sé stesso, contro il mondo. Ecco perché il tema del fuori e dell’avventura del mondo implica anche, e immediatamente, quello contrario del lasciarsi andare, del mollare la presa (si pensi, al contrario, all’insopportabile motto fascista che esorta, invece, a “non mollare mai”):

Questo mi viene in mente perché, in ultimo, l’avventura ha anche a fare con la questione dell’abbandono, a cui dovremo pur volgerci un giorno o l’altro. L’abbandono, il mollare la presa, il finirla con tutte le pretese delle nostre parole, sembra una questione impensabile. Ma lo è, credo, perché l’informazione è considerata l’unico destino delle parole e del pensiero. Tra sentire e pensare io non credo ci sia molta differenza, e tutto quello che facciamo è sempre un sentire-pensare-immaginare. Ma è proprio questo nodo che l’informazione tende ad anestetizzare, ripartendolo in diverse categorizzazioni specialistiche, per trasformarlo poi in dati di fatto divulgabili. Ebbene, la questione dell’abbandono, come quella del dolore, riposa al fondo di questo nodo del sentire, che è come la nostra riserva ultima (p. 104).

Da questa passione per il fuori – che non vuol dire altro, in fondo, che «appartenere all’essere nella sua interezza» (ivi, p. 583) – viene anche l’attenzione per la fotografia dell’amico Luigi Ghirri, il fotografo che più di ogni altro ha saputo essere “affettuoso” con il mondo e le cose. Una passione che da un lato coincide con una analoga passione per la vita: «Questa è una cosa di cui Luigi parlava tanto, il fatto che prima della fotografia, dello scrivere, di tutto, viene il fatto che tu viva. Qualcosa che non ha termini, non ha spiegazioni, non ha categorie» (ivi, p. 582); dall’altro, e proprio perché per vivere bisogna avere il coraggio di abbandonarsi alla vita, la passione per il fuori è anche una passione per l’incontro e la contingenza:

Un incontro vuol dire mettersi allo scoperto, nella nuda esperienza di quello che non so e verso cui mi lancio. L’incontro con i luoghi è sempre l’imprevedibile che ci attira verso qualcosa che non sappiamo, a cui non sappiamo dare un nome. Ed è il privilegio del documentario, che è tanto più appassionante quanto più ti porta verso il puro accadere, nell’imprevisto delle percezioni. E questo è un modo per mettere in gioco ciò che nessuno guarda e per produrre nuove visioni (ivi, p. 564).

E che cosa sono queste “nuove visioni” se non appunto occasioni – allo stesso tempo fortuite ma necessarie se ci si vuole salvare dall’anestetizzarsi del pensiero e dello sguardo – per scoprire il fuori del mondo? Il mondo, la vita, o come lo chiama in un’altra intervista, l’Altro assoluto. In effetti questo Altro non si offre a poco prezzo, perché per farne esperienza occorre appunto rinunciare ad ogni tentativo di ingabbiarlo in un pensiero già pensato:

Così anche gli eroi delle fiabe, noi non sappiamo mai di preciso cosa cercano e cosa s’aspettano. Sappiamo solo che devono compiere un percorso obbligato, e così trovare il mondo. Qualcosa del genere avviene negli stati di disperazione, quando tutto il desiderabile sociale ti crolla sotto gli occhi Allora si affaccia al tuo orizzonte l’Altro, come il principio delle tue attese e della tua ricerca. E devi compiere un percorso obbligato, non per catturare qualcosa di preciso, ma semplicemente per trovare l’Altro (ivi, p. 93).

È in questa tensione, infine, fra un “percorso obbligato” che non può che portare verso lo scioglimento da ogni obbligo – perché l’Altro è l’indifferenziato, senza legge né giudizi – che troviamo l’unica paradossale indicazione di metodo per provare a fare esperienza del fuori:

Lui [Ghirri] diceva che di una fotografia la cosa più importante non è la fotografia in sé, ma quello che c’è fuori dalla fotografia. Perché la fotografia ci serve solo a guardare quello che c’è fuori. Questo è un ribaltamento del modo tradizionale di pensare a cosa c’è fuori di noi, quindi non è il fatto del guardare di tipo oggettivo, ma è proprio un problema di avvicinamento a quello che è fuori di noi, è anche un atteggiamento diverso, che può essere soltanto un atteggiamento di tipo emotivo. Sia il genere della fotografia estetica, estetizzante, sia il genere della fotografia come testimonianza sociale vengono scartate da questo punto di vista, ma si fa avanti qualcos’altro, che Ghirri, sull’onda di Calvino, diceva «un mondo che guarda il mondo». E in questo senso non c’è più differenza tra un paesaggio bello e un paesaggio brutto, non c’è più la noia del mondo. C’è però qualcos’altro, che è un certo entusiasmo per l’essere qua con gli altri (p. 576).

Gianni Celati, Il transito mite delle parole. Conversazioni e interviste, 1974-2014, a cura di Marco Belpoliti e Anna Stefi, Quodlibet, Macerata 2022.

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