Il cinema e la cinefilia portano sempre con sé una forma di mistero. In una conversazione con lo scrittore palestinese Elias Sanbar, Serge Daney riprende l’idea godardiana del cinema come un “paese in più” sulla carta geografica, a costituire una sorta di internazionale implicita che – come il comunismo o la psicanalisi – ha avuto il potere di immettere direttamente nel mondo (Daney 2015, pp. 137-138). Uno strano paese, quello del cinema: elitario ma aperto a tutti, esigente ma non riservato, intrinsecamente e ineludibilmente cosmopolita sin dalle origini. Il nome di Daney è uno di quelli che molti tra i membri inconsapevoli di questa internazionale conservano come un tesoro segreto e prezioso, pronti a riconoscersi quando s’incontrano, analogamente a quanto accade talvolta tra amanti di un certo cinema. Non si tratta però dello sciovinismo di chi ama identificarsi in una nicchia, semmai dell’entusiasmo ingenuo della scoperta che caratterizza certi giochi infantili. C’è da rammaricarsi della scomparsa degli scritti di Daney non soltanto dal dibattito, ma anche dalla circolazione editoriale in Italia: sono testi che si ha spesso voglia di rileggere, a differenza di quanto avviene con gran parte della critica cinematografica, e come ogni classico dicono qualcosa in più a ogni rilettura.
Per essere più precisi, si ha la sensazione che in essi sia in gioco qualcosa di diverso dal semplice (o complesso) discorso sul cinema, e che il cinema sia in fondo un pretesto, un’occasione per un più articolato discorso sul mondo. Una riflessione sulla scrittura critica a partire dalla figura di Daney non può che cominciare allora da un apparente paradosso: la critica cinematografica ha smesso di avere importanza quando ha messo da parte il mondo e ha preso il cinema come suo oggetto. Ripercorrere brevemente alcune linee del pensiero di Daney, a venticinque anni dalla morte e a partire dal reticolato che il suo pensiero istituisce, è anche un modo per provare a cogliere quel nucleo segreto che è alla base della scrittura critica, nel tentativo di restituirle il suo vigore.
Il cinema è tempo. “Se la critica ha dunque un senso, è nella misura in cui un film mostra un supplemento, una sorta di scarto rispetto a un pubblico ancora virtuale, tanto che occorre guadagnare tempo e conservarne tracce nell’attesa. […] Il critico, secondo lei, è colui che ‘veglia’ sul supplemento, liberando così la funzione estetica del cinema” (Deleuze 2000, pp. 102-103). Così Gilles Deleuze, in una Lettera a Serge Daney che avrebbe fatto da prefazione al suo libro Ciné-Journal. Si potrebbe pensare, in effetti, che il cinema sia il regno delle immagini o dell’immaginario, ma Daney (con Bergson, e con Deleuze) sostiene che il cinema sia essenzialmente temporalità. Le cinéma, c’est la durée: l’invenzione del tempo, a partire da un tempo che è mio e contemporaneamente anche di qualcun altro. Nello spazio aperto dal cinema, negli intervalli e nelle distanze che non esauriscono mai le sue potenzialità, va ritrovata anche la possibilità di esistenza dello spettatore. Lo avrebbe compreso in maniera feconda un filosofo come Jacques Rancière, che nel suo Scarti. Il cinema tra politica e letteratura avrebbe portato alle sue conseguenze questa intuizione, condividendo con Daney un percorso che ha le sue origini nella cinefilia classica.
Il cinema è spazio. Il titolo di un bel ricordo che Rancière ha dedicato a Daney, Il luogo “comune”, è un testo che restituisce al tempo (la memoria) e allo spazio (la sala cinematografica, in questo caso) un ruolo fondamentale nel rapporto con la settima arte. Non è tanto il critico Daney a condividere una visione con Rancière – “lo sguardo critico vince sempre soltanto perché un altro (il solo che conta, lo sguardo dello spettatore, del bambino, del viaggiatore) parte già sconfitto” (Rancière 2012, p. 292) – quanto l’amateur, l’appassionato che intuisce nel cinema, prima ancora di ogni teoria, l’apertura di un rapporto con l’altro e col mondo che mette in discussione i criteri di giudizio delle arti e del mondo stesso. Colui che vede nel cinema il luogo in cui è in gioco una promessa, capace di modificare leggermente, e tuttavia sensibilmente, la vita di tutti quelli che un ordine delle cose travestito da destino avrebbe escluso dalla condivisione di questo sapere. Daney lo scopre, ancora bambino, nelle sale rionali dell’XI arrondissement di Parigi, con la madre e la zia che rimandano i piatti da lavare e ogni altra incombenza e si fiondano nella sala oscura, a scoprire i melodrammi o film di cappa e spada che provengono dall’Italia. Ma se il cinema è l’infanzia, è chiaro sin da subito che esso istituisce uno spazio nel quale lo spettatore, e anche un certo tipo di politica, hanno un ruolo e una posizione ben precisa.
Il cinema è gesto. Il più bel racconto di una sequenza cinematografica fatto da Daney è probabilmente quello di un film che afferma di non avere mai visto. A diciassette anni, dopo aver letto sui “Cahiers du cinéma” un articolo intitolato Dell’abiezione in cui l’autore, Jacques Rivette, condanna la carrellata che inquadra il suicidio di Emmanuelle Riva in un film di Gillo Pontecorvo che si chiama Kapò (1959), Daney si convince una volta per tutte della moralità inscindibile di ogni movimento della macchina da presa. Les travellings sont affaire de morale. E capisce anche qualcosa di più generale, che un filosofo come Giorgio Agamben, in un testo pubblicato sul primo numero della rivista “Trafic” fondata da Daney pochi mesi prima di morire, avrebbe espresso così: “Il cinema riconduce le immagini nella patria del gesto. […] Poiché ha il suo centro nel gesto e non nell’immagine, il cinema appartiene essenzialmente all’ordine dell’etica e della politica (e non semplicemente a quello dell’estetica)” (Agamben 1996, p. 50). La televisione, o la pubblicità, sono il regno delle immagini, mentre l’essenza del cinema è l’atto di mostrare: il gesto che istituisce il cinema stabilisce una relazione, una posizione e richiede una risposta. Lo spettatore, il critico, sono coloro che rispondono, come in una partita di tennis, al servizio del regista. Senza questa risposta non ci sarebbe scambio, non ci sarebbe tennis, non ci sarebbe cinema.
Il cinema è parola. Sul terreno dello scambio che costituisce il cinema come strumento, e non come fine, le parole di Rivette erano già una dimensione ineliminabile della settima arte. Anche Daney avrebbe scelto di rispondere attraverso le parole, e se è vero che ogni autentico scambio non è mai soltanto intellettuale, ma anche fisico, non bisogna trascurare il fatto che le parole hanno un corpo, ossia una voce. Quando oggi parliamo del pensiero di Daney ci riferiamo essenzialmente ai suoi scritti, dimenticando che una parte fondamentale della sua elaborazione concettuale è quella delle conversazioni, che hanno avuto la loro massima espressione nella trasmissione radiofonica Microfilms, andata in onda ogni settimana su France Culture tra il 1985 e il 1990. Si tratta di una vera e propria miniera, tutta da riscoprire: l’occasione di assistere al pensiero nel suo farsi, e di comprendere quanto l’oralità della parola fosse per Daney una condizione essenziale per la scrittura. Godard inserisce in un episodio delle sue Histoire(s) du cinéma proprio una conversazione con Serge Daney, e almeno altri due film mostrano l’importanza, e il fascino, della dimensione orale della sua riflessione: l’intervista di Régis Debray, filmata da Pierre-André Boutang e Dominique Rabourdin, dal titolo Serge Daney – Itinéraire d’un cinéfils (1992) e il più recente film di Serge Le Péron dal titolo Serge Daney – Le cinéma et le monde (2012), che mette in dialogo il pensiero del critico francese con alcune delle persone (De Oliveira, Kiarostami, Denis, Iosseliani e molti altri) che più ne sono state infuenzate.
Il cinema è vita. Tra di esse, il regista e critico Olivier Assayas, che insiste sul fatto che i film, come anche gli autori, erano per Daney sintomi di qualcosa di più importante e primordiale, qual era il cinema. Daney ha in effetti un’idea religiosa del cinema (di una religione laica, certo): nell’ultima fase della sua vita ripete spesso di considerarsi un “cine-figlio” e ne identifica una nascita e una morte, come per creare la possibilità di una redenzione. C’è chi ha sottolineato come questa piega del pensiero di Daney, non priva di tentazioni narcisistiche, non debba essere considerata, per quanto affascinante, come una summa del suo pensiero, e risponda semmai a un mutamento storico del discorso cinefilo (Pigoullié 2002, pp. 83-87). È vero anche che nell’intreccio inestricabile di cinema e vita, nel suo considerarsi parte del mondo grazie a esso e nel mettere se stesso al centro della comprensione del gesto cinematografico (“Quanti critici hanno una biografia?”, si chiede giustamente Goffredo Fofi nell’introduzione al più intimo dei libri di Daney, Lo sguardo ostinato) sembra di poter scorgere l’ultimo interprete eretico di una formula antica, quel credo ut intelligam, intelligo ut credam che aveva caratterizzato, con varie oscillazioni, gran parte del pensiero filosofico del Medioevo occidentale. Come un novello Sant’Agostino, le confessioni cinematografiche che di Daney permettono di vedere nel cammino della sua vita – e forse in quello dell’uomo in generale – il continuo desiderio di comprendere solo la propria anima e Dio, o comunque si intenda chiamare quell’arte sacra che dà origine alle cose e accesso al mondo, e che permette di resistere al suo imbarbarimento.
Il cinema è critica. «Per rispondere alla questione più concreta, non si diventa critici cinematografici. Non può essere una vocazione, non è quasi neanche un mestiere, io sono riuscito a vivere di questo senza neanche averlo mai voluto. Oltre al fatto che ormai è qualcosa di morto, non si pone più la questione: anche all’epoca in cui c’erano ancora dei critici cinematografici, i pochi che contavano qualcosa avevano fatto tutti un percorso strano, forse avevano semplicemente dimenticato di fare qualcos’altro» (Daney 2012, p. 16).
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Mezzi senza fine. Note sulla politica, Bollati Boringhieri, Torino 1996.
S. Daney, Cartolina a Serge Daney, a cura di Andrea Inzerillo, in “Filmcritica”, n. 621/622 (2012).
S. Daney, La maison cinéma et le monde. Vol. 4, Le moment Trafic: 1991-1992, POL, Paris 2015.
G. Deleuze, Pourparler, Quodlibet, Macerata 2000.
J.-F. Pigoullié, Serge Daney sans posterité?, in “Esprit”, n. 286 (2002).
L. Skorecki, Dialogues avec Daney, PUF, Paris 2007.
J. Rancière, Il luogo “comune”, in “Filmcritica”, n. 627, luglio 2012.