il sindaco del rione sanità

Nel suo libro Napoli, Paolo Macry, parla anche delle varie stagioni dei sindaci di quella città polimorfa, dal “Laurismo” al “Bassonilismo”, fino a un sindaco “anomalo” come De Magistris, laddove il rapporto tra comunità, popolo e tessuto politico dispiega una dialettica contraddittoria fatta di luce e ombra, di diurno e notturno, della insita ambiguità tra bene e male. In quella parte del volume si cita anche Napoli no/New York, un piccolo libro uscito nel 1982, curato da Alberto Abruzzese (cui chi scrive quest’articolo contribuì con un saggio che indagava il teatro e il cinema  di quegli anni da Troisi al primo Martone di Falso Movimento), dove «si ragionava ironicamente di una metropoli che, rimasta isolata dal resto del pianeta a seguito della Grande Catastrofe, si era assunta il compito di sperimentare il germe di una nuova civiltà. E ci riusciva. Napoli sembrava in grado di inventare o collazionare la modernità» (Macry 2018, p. 150).

Macry ricorda che nel 1979, alla vigilia del terremoto (una catastrofe che assumeva un indice simbolico di rottura e di reviviscenza, mescolando arcaico e postmoderno, morte e rinascita), Martone fonda il gruppo teatrale Falso Movimento, con cui imprime la novità eclatante di un incrocio fertile tra allucinazioni metropolitane, slittamenti filmici, decostruzione della spettacolarità. Quaranta anni dopo Martone approda alla messinscena di un testo scritto da Eduardo nel 1960 (al crepuscolo della “sindacatura” di Achille Lauro e nel clima che nel 1963 Rosi raccontò in Le mani sulla città) e ne trae un film, molto diverso eppure in stretta empatia con lo spettacolo e con la sua compagine attoriale (il gruppo Nest che opera a San Giovanni a Teduccio). Un film fortissimo, teso, lancinante. Un film divaricato tra il regime notturno e quello diurno, che affonda in modo lucido lo sguardo in quelle radici umane dove il bene e il male si fondono.

Martone ha più volte ripetuto come il suo rapporto con Napoli trascorre in un doppio sguardo, su una doppia visione urbana, quella diurna e quella notturna. E proprio il periodo fondativo di Falso Movimento attiva una Napoli notturna e allucinatoria che si trasforma in un immaginario vicino a quella New York che più volte è stata paragnata al tessuto urbano di Napoli (e la presenza in quegli anni di un gallerista come Lucio Amelio che porta in città più volte Andy Warhol, appare decisiva). Quella “notte” simbolica diventa poi un’allegoria tragica nell’altro spettacolo-film che inaugura la fase teatrale di Teatri Uniti, quel Rasoi (imbastito nel 1991 con Toni Servillo e Enzo Moscato) dove il “silenzio della ragione” di ortesiana memoria si posava come un raggio pallido di luce nel groviglio viscerale della storia napoletana.

Le sequenze iniziali di questo Sindaco cinematografico sembrano riannodarsi a quelle allucinazioni notturne della Napoli post-terremoto di Falso Movimento. Fondali di un inferno notturno filmati con una ripresa aerea che introduce al nero, ai richiami quasi horror (la ferocia dei cani che azzannano nella notte Armida, il quadro delle fauci di una tigre feroce che campeggia nel salotto di Antonio Barracano, la stessa prima apparizione del “Sindaco” con la cappa nera del maglione che gli nasconde il volto, come un fantasmatico “monaciello”).

Il Sindaco del Rione Sanità

Un affondo “a picco” nell’anima nera della città (e il film fa pensare proprio al Rossellini di Anima nera, tratto da una commedia di Giuseppe Patroni Griffi, del 1962, stessi anni e stesso clima di ambiguità morale, film “minore” ma lucidamente spietato nell’esporre a ventre aperto ipocrisia, cinismo, crimine anzitutto morale). L’apertura allucinatoria del film introduce a una sorta di “horror dell’anima”, richiamando l’inizio kubrickiano di Shining o i climi notturni di Abel Ferrara. L’occhio di Martone, cadenzato dall’ipnotico rap, si introduce come volando nelle vene aperte del corpo di Napoli, sotto lo sguardo dei giganteschi murales dei “Lari” mitici, dei “protettori” della città.

Stiamo entrando nella Città dei Morti, penetriamo negli ipogèi dove l’ancestralità riemerge mescolata a quella mutazione antropologica che alligna ed è in continuo agguato e assedio rispetto al “mondo altro”, alla “tribù” unica che è Napoli (tutto ciò aveva visto a suo tempo, profeticamente, Pasolini). Del resto il Rione Sanità si estende proprio in quella parte della Napoli grecoromana che era la città dei morti, con le sue catacombe e i suoi sotterranei sacrali (non a caso in un vicolo che si chiama Santa Maria Antesaecula nacque quel metafisico e ilare spettro che fu Totò). Per cui si dispiega, tra arcaico e post-storico, l’intuizione di Martone, la sua scelta, in sintonia con uno dei crismi della sua poetica, di trasportare anacronicamente nella città contemporanea quella Napoli eduardiana del sessanta, e quel codice d’onore della vecchia camorra (la cui paradossale giustizia ha le sue ragioni), ringiovanendo tutto il cast.

Sono stupefacenti gli attori dal primo all’ultimo, dove campeggia l’intensità lacerante di Francesco Di Leva, il Sindaco, e dove si “intrinseca” l’ambigua impassibilità di un maiuscolo Massimiliano Gallo, che è il “serpentino” uomo dabbene Arturo Santaniello. Non si vedeva dai tempi del Visconti di Rocco e i suoi  fratelli, una tale e potente capacità di stare lucidamente e passionalmente vicino agli attori, un modo di intensità ravvicinata, nel toccare, nel respirare, nel guardare-guardarsi (l’uso del riflesso nei vetri e degli specchi, rispetto ai volti segreti dei personaggi, è indicativo). Allora senza soluzione di continuità penetriamo nell’interno del villone “sotto il Vulcano” del capo camorra Antonio Barracano e, come nel dramma di Eduardo, arriviamo quando il corpo di uno dei giovani camorristi devoti viene accompagnato dallo stesso suo attentatore in una improvvisata camera operatoria, sotto i ferri di Fabio Della Ragione (il medico-consigliere di Donn’Antonio, in cui livore e pietà umana, lucidità appunto “della ragione” e cupezza passionale si sposano in una delle più grandi interpretazioni di Roberto De Francesco).

Il Sindaco del Rione Sanità

Questo insistere (che già nella crudeltà nera ed espressionista di Eduardo era presente) sulla lacerazione della carne, la ferita sanguinante, una sorta di anatomia che cerca di enucleare l’anima, ritorna nel film come segno di una empatia dei legami di sangue. La ferita “a morte” inflitta al Sindaco ne fa un corpo cristico, una carne sacrificale non a caso riversata su un tavolo da “ultima cena” (e su questa immolazione il film si chiude, tagliando la lettura del referto fatta “in fede”, nel nome di verità e ragione, dal medico, che chiudeva il testo di Eduardo). Campeggiano le dinamiche del clan, del familismo, della comunità stretta nei codici criminali, di una contro-morale che ha le sue “ragioni” nei giudizi del Sindaco (“tene ragione o’cane” è la sentenza assolutoria del mastino Malavita, il cane che ha azzannato la padrona, che però involontariamente lo ha provocato). Ne risulta il modo di girare spesso sconvolgente, tagliente, sempre tesissimo e flagrante, di Martone rispetto a questa fisicità dei rapporti, diretta, palpabile, emotiva, nervosa, tal quale la macchina da presa.

Ma l’altro versante del film è il riflesso della messinscena, divaricato com’è tra esterni e interni, in un gioco tra visibile e invisibile che attiva l’affabulazione. In fondo che cosa è questo Sindaco se non un metteur en scene, un affabulatore, il cui “giudizio” (come è della teatralità di ogni dibattimento processuale, e della intrinseca falsità di ogni testimonianza) è anche parabola, evocazione di una scena immaginaria ma pertinente? Così nel racconto della sua infanzia passata di capraio che Barracano fa a Santaniello, con la ferocia primitiva e insieme il senso biblico di giustizia di una civiltà contadina. Così nelle “apparizioni” e “sparizioni” dei denari invisibili, ricondotti alla simbolicità quasi evangelica della “moneta”, nella “finzione” che infligge la punizione allo strozzino. Così nel confronto evocativo e seduttivo del trasporto fisico di Rituccia per Rafiluccio, attuato come in diretta e per interposta persona sul corpo di Donn’Antonio.

Essere “sindaci” in ogni comunità è rivestire il simbolico ma anche scatenare l’immaginario. A Napoli e nella concreta e metaforica comunità tragica in cui crimine e redenzione si congiungono, essere “sindaci” diventa ancor più uno scatenamento dell’immaginario, in cui riemerge tanto il freudiano “padre” tribale quanto la junghiana Grande Madre (e il film si chiude con l’immagine da “addolorata” di Armida).

A Napoli in questo senso, e nel film ancora in questo senso, ci si specchia nello sguardo degli altri e si raccontano favole atroci e seducenti. A Napoli, e in questo Sindaco, individuo e comunità si rinsaldano tra l’empatia e l’affabulazione.

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Riferimenti bibliografici
A. Abruzzese, M.Videtta, L. Caramiello, B. Roberti, G. De Martino, Napoli no/New York , Liguori, Napoli 1982.
R. De Gaetano e B. Roberti, a cura di, L’Arte di Eduardo. Le forme e i linguaggi, Pellegrini, Cosenza 2014.
A. Lezza, I. Innamorati, A. Sapienza, a cura di, L’Arte di Eduardo. Forme della messinscena, Pellegrini, Cosenza 2017.
P. Macry, Napoli. Nostalgia di domani. Il Mulino, Bologna 2018.
B. Roberti, A distanza ravvicinata. L’arte di Mario Martone Pellegrini, Cosenza 2018.

*Le immagini presenti nell’articolo: http://www.fosforopress.com/portfolio/il-sindaco-del-rione-sanita/. 

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