di ERCOLE GIAP PARINI
Philip K. Dick, tra utopia e distopia.

Blade Runner (Scott, 1982)
Pur radicato nella fantascienza, e venendo riconosciuto come uno dei maestri indiscussi del genere, Philip Kindred Dick è molto di più, traboccando, con la sua poetica e il suo stile immaginifico, nel cuore della inquietudine sociale e culturale della seconda metà del Novecento, quella di un mondo diviso in blocchi, spaccato in due dalla Guerra fredda. Un mondo che cominciava a vedere frantumarsi il suo orizzonte di senso, di fronte al timore dell’esplosione definitiva. La capacità di Dick nell’interpretare letterariamente lo spirito di un’epoca, al di là dei generi, porta Carlo Pagetti, nella introduzione a La svastica sul sole, a collocarlo, insieme a Kurt Vonnegut:
Pienamente nell’area del postmoderno, approfondendo un discorso che […], calato nelle opere mature di SF, non riguarda soltanto il rapporto ambiguo che si istituisce tra la realtà e l’illusione, ma, ancora di più, la relazione che intercorre tra la realtà […] e quel sistema codificato di menzogne che è una qualunque forma di comunicazione […] il Verbo divino un sistema di segni arbitrari, sempre e comunque soggettivamente interpretabili (Pagetti 2007).
Eppure, per quanto non confinato, Dick è autore centrale nella letteratura fantascientifica; anzi, vera e propria icona di quello che, negli Stati Uniti degli anni cinquanta e sessanta del Novecento, era genere ormai affermato, annoverando, oltre a un buon numero di appassionati, molte riviste e collane specifiche; e inaugurando quella pratica della letteratura variamente partecipata che si appoggia sulle comunità di fan. Proprio la fantascienza, prefigurando futuri possibili e tirando delle rette impossibili e immaginifiche dal vissuto sospeso e incerto di quegli anni, permetteva a Dick di dare corpo letterario alla sua inquietudine, che immancabilmente si confrontava con la distopia, grumo prodotto dalla paura vissuta, e che, come recita l’enciclopedia Treccani on-line, si concretizza in una «descrizione o rappresentazione di uno stato di cose futuro con cui […] si prefigurano situazioni, assetti politico-sociali e tecnologici altamente negativi».
Il rapporto tra Dick e la distopia trova il suo momento più rappresentativo nel romanzo Do Androids Dream of Electric Ships?, meglio noto, anche per la versione cinematografica che ne ha tratto nel 1982 Ridley Scott, con il titolo di Blade Runner; testo che, insieme al film, ha letteralmente tratteggiato e segnato, anche esteticamente, il suo tempo (al riguardo, ricordo il frangettone di tante ragazze degli anni ottanta che si ispiravano a Sean Young, la protagonista femminile di Blade Runner). Situazioni in cui si intrecciano le vicende tra umani e non umani, androidi appunto, sono rese possibili, anzi necessarie, dalla condizione di un pianeta Terra devastato. Una distopia sociale che rappresenta per Dick, sempre interessato ad andare al fondo di questioni esistenziali di matrice filosofica, la possibilità di interrogarsi su ciò che è umano e pensante.
Nel racconto Minority Report, che Dick scrisse nel 1954, sono pure presenti tratti distopici. Anzi, uno sforzo interpretativo su questo testo permette di mettere in luce elementi meno scontati o usuali del concetto di distopia. In un tempo indefinibile nel futuro, segnalato da tratti di una tecnologia non ancora disponibile, la grandissima parte dei crimini e, soprattutto, degli omicidi è stata eliminata grazie a un meccanismo che permette di anticiparne la commissione. La polizia, coerentemente col compito di arrestare i potenziali criminali prima che commettano i reati, è chiamata Precrimine e utilizza, per la sua attività, i rapporti prodotti da tre misteriose entità preveggenti, mantenute in vita in laboratorio e chiamate Precog. John Anderton, il protagonista del racconto, è un commissario della Precrimine che viene a trovarsi al centro di un complotto ordito da alcuni militari preoccupati per la perdita di potere che il meccanismo della preveggenza può comportare: per loro, la soluzione è screditare quel meccanismo, facendo cadere nel gioco delle responsabilità anticipate proprio il commissario Anderton.
Come spesso accade con i racconti di Dick, il congegno è minuziosamente complesso: il titolo del racconto rimanda alla possibilità che le tre entità preveggenti non siano d’accordo e che una di loro produca, appunto, un rapporto di minoranza. Il commissario Anderton sarebbe responsabile, allora, della commissione futura di un omicidio per due Precog, ma non per il terzo. Nello sviluppo del racconto, si scopre, poi, che ciascuno dei rapporti è in realtà diverso dagli altri, non esistendo quindi un vero e proprio rapporto di minoranza. Il congegno del racconto sviluppa un sofisticato gioco circolare, in cui la lettura dei rapporti a cui Anderton può accedere condiziona il futuro e la stessa commissione del delitto. Il protagonista arriverà alla soluzione, ma al costo di essere confinato lontano dalla Terra.
Torniamo, allora, alla distopia. Credo sia plausibile affermare che essa è fatta della stessa sostanza dell’utopia, rappresentandone, con simmetria speculare, l’altro esito, non nel senso della semplice possibilità, bensì della necessità. È possibile portare alle estreme conseguenze l’intuizione che Shakespeare affida a Prospero ne La tempesta: «Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e nello spazio e nel tempo di un sogno è raccolta la nostra breve vita» e considerare il legame tra sogno e utopia, tra distopia e incubo, per scoprire una dimensione costitutivamente umana, continua lacerazione tra i due estremi, nella consapevolezza di un destino tragico nel quale ci dibattiamo. Senza soluzione di composizione.
Fa parte delle cose umane, quindi, immaginare una società migliore per destinarla all’incubo, scatenando gli effetti indesiderati, distopici, del progetto. E che una società senza crimini abbia le caratteristiche del sogno impossibile e persino dannoso è argomento sul quale ritornano le scienze sociali. Emile Durkheim mette in luce come tassi fisiologici di crimine siano, proprio perché fisiologici, fenomeni normali di una società, quindi interpretabili secondo una dimensione funzionale capace di favorire la sopravvivenza dei gruppi. In un capitolo de Le regole del metodo sociologico, dal titolo “Regole relative alla distinzione tra normale e patologico”, il sociologo francese mette in evidenza come la presenza dei reati, in ogni società, non sia soltanto inevitabile come «fatto increscioso», ma, addirittura, «fattore della salute pubblica, una parte integrante di ogni società sana», identificando, quindi, le funzioni che la presenza del crimine svolge, sia nel raccogliere i gruppi sociali intorno ai propri valori fondativi, attraverso la stigmatizzazione del reo, sia nell’innescare quelle tensioni sull’ordine capaci di portare a processi di mutamento, condizione essenziale perché la società sopravviva e non imploda sulle sue rigidità morali.
Ma è possibile andare oltre al rapporto speculare tra utopia e distopia se a guidarci è un autore complesso e inquieto come Dick, che sembra – come già ricordato – proiettare nel futuro utopico o distopico le ansie del suo presente insieme alle sue paranoie. I tempi della guerra fredda, quindi del terrore nucleare; quelli del maccartismo e del pericolo rosso; i tempi in cui lo scrittore temeva di essere spiato e minacciato dagli agenti maccartisti per le sue idee e la sua scrittura, che celava nella letteratura genere SF una visione e una condanna radicale dell’ordine costituito. Possiamo allora immaginare che, nel maccartismo, Dick leggesse la distopia di un presente in cui si perseguitavano anticipatamente i presunti colpevoli; uno stato di intimidazione permanente che doveva portare a una società artificialmente pacificata. Quella stessa società che poi sarebbe stata anestetizzata con i simulacri dei consumi e che bene ha interpretato con il romanzo Ubik. E allora, sotto il rapporto speculare tra utopia e distopia, è possibile vedere, a tenere insieme quei poli, il potere e le tensioni che innesca la lotta per esso. Un potere che disegna utopie autolegittimanti di società migliori per poi trasformarle nella distopia del controllo onnipresente, che fagocita voracemente, in nome della sicurezza, le libertà e i diritti sui quali pure si fonda.
Ma ancora questo non basta a dare conto della complessità del tormento di Dick, che propone percorsi immaginifici e tortuosi che nulla lasciano alla facile interpretazione. Se, nel congegno del racconto, Anderton rappresenta il personaggio con il quale il lettore si identifica, rimane, come senso di inquietudine latente, il sospetto di prendere le parti di quel sistema distopico, rappresentato appunto da colui che deve difendersi dalle trappole ordite dai militari. E il sacrificio di Anderton segna un tragico destino che non riconosce esiti fausti nella tensione tra l’utopia e la distopia. E ancora, nella moltiplicazione dei piani del discorso, dopo avere sfidato immaginificamente il futuro, Dick porta le ansie e le vicende della sua contemporaneità, temporalmente dilatata, nella dimensione atemporale del mito: le tre entità evocano i vaticinatori, gli oracoli che davano conforto o dispensavano luttuose profezie a esseri umani che vi si affidavano ritualisticamente per precorrere eventi e trovare la forza di compiere le loro imprese. Quindi spesso affidandosi al destino che dà corpo a soluzioni senza soluzione.
Riferimenti bibliografici
P.K. Dick, La svastica sul sole, Fanucci, Roma 2007.
Id., Blade Runner, Fanucci, Roma 2017.
Id., Ubik, Fanucci, Roma 2019.
E. Durkheim, Le regole del metodo sociologico, Comunità, Torino 1996.
C. Pagetti, La svastica americana, introduzione in P.K. Dick, La svastica sul sole, Fanucci, Roma 2007.
L’incubo prossimo venturo ma anche un mondo creativo