La memoria del cinema

di ALESSANDRO CAPPABIANCA 

Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve.

L’agente K (Ryan Gosling), replicante di nuova generazione (di una nuova generazione di schiavi, creati artificialmente dalla multinazionale Wallace per essere al servizio degli umani) è stato addestrato per “ritirare” (eliminare) i vecchi, inaffidabili replicanti della Tyrell (che ogni tanto avevano il vizio di ribellarsi o di chiedersi il senso del loro esistere), sopravvissuti in clandestinità dall’epoca del Blade Runner di Ridley Scott, in cui a dar loro la caccia era Rick Deckard (Harrison Ford), un “umano” (forse). Ma qual era l’epoca di Blade Runner? Era il 2019, anno in cui era ambientata la storia, o il 1982, anno in cui fu girata? Ce lo chiediamo, perché K ritrova Deckard, molto invecchiato, in un ex-casinò, dove vive solo in compagnia d’un cane (che non si sa se sia “vero” o “falso”), dilettandosi a vedere/ascoltare gli ologrammi di Marylin Monroe, Elvis Presley e Frank Sinatra, strani residui mnemonici per un blade runner del 2019: dunque probabili nostalgie di Denis Villeneuve, regista di questo sequel, o dei suoi sceneggiatori (Hampton Fancher e Michael Green), che non erano concepibili nel film di R. Scott (benché lì Fancher figurasse già come sceneggiatore).

Dunque 1982 o 2019? Forse la domanda è oziosa, dato che il Blade Runner di Scott, indipendentemente dai suoi meriti effettivi, entrò subito a far parte del tempo del Mito. E d’altra parte, rischiando la vertigine temporale, bisognerebbe allora tener conto anche del 1968, anno in cui uscì il romanzo Do Androids Dream of Electric Sheep? di Philip K. Dick, dove l’unica diva che Rick Deckard si trova ad apprezzare era Luba Luft, replicante e cantante lirica, specializzata nel ruolo di Pamina nel Flauto magico di Mozart. Luba ama l’arte, visita una mostra di Munch e apprezza in particolare Il grido, che Dick descrive così:

Il quadro mostrava una creatura calva e angosciata, con la testa che pareva una pera rovesciata, le mani premute sulle orecchie e la bocca aperta in un immenso urlo muto. Onde contorte del tormento della creatura, echi del suo grido, fluttuavano nell’aria che la circondava; l’uomo, o la donna, qualunque cosa fosse, aveva finito per essere contenuta nel proprio urlo. Si era coperta le orecchie proprio per non sentirlo.

Il sogno di Dekard, nel romanzo di Dick, era di possedere un animale vivo autentico, invece del simulacro elettrico d’una pecora. Se coltivi questo sogno per esorcizzare la paura d’essere lui stesso un androide, è solo un’ipotesi, come l’altra che prospetta l’assonanza tra il suo nome e quello di Descartes, con tanto di “Penso, dunque sono”. Nel 2049, Dekard deve contentarsi della compagnia d’un cane, che non sappiamo se sia vero o falso, ma sembra comunque essergli affezionato. Forse è destino di certi replicanti, o di certi ologrammi, di affezionarsi agli umani, come accade a K con Joi e Mariette, in una delle sequenze più suggestive del film: scena d’amore a tre o a due? O è un tre che tenta di diventare due, tramite l’incorporazione di due immagini rispetto alla terza, rispetto all’immagine-corpo? Il corpo di K sarebbe insomma l’immagine-corpo bergsoniana che interagisce con le altre immagini, ricevendo/rendendo vita e movimento. Nella maggior parte dei replicanti, invece, cresce il rancore e cova la rivolta, ma sempre di corpi-immagine si tratta, anzi, di immagini-corpo, visto che siamo in un film, e dunque, comunque, in presenza di simulacri.

I nuovi replicanti, come quelli di vecchio modello, in genere sono creati già adulti, dotati di intelligenza e di grande forza (o, in alternativa, di bellezza e capacità seduttive), in modo da potersi mettere subito al servizio degli umani (anche se esistono replicanti-bambini, adibiti a lavoro minorile, fatto passare per gioco). In più, nei nuovi, è stato inoculato il virus dell’obbedienza, assoluta e senza condizioni. Rispetto al processo naturale della nascita, dunque, manca loro quella che K chiama “anima”, ma forse si potrebbe chiamare semplicemente “memoria”. I replicanti non sono mai stati bambini, non hanno memoria, ma solo ricordi, indotti artificialmente. K ne è consapevole: ricorda d’essere stato bambino, di aver posseduto un giocattolo, un cavallino di legno – ma è anche convinto che questo ricordo non sia reale, che gli sia stato innestato al momento della fabbricazione. Sa che non è reale, e al tempo stesso non può reprimere la sensazione che lo sia. La pecora elettrica è diventata un cavallino di legno, ma il cavallino di legno non pretende di essere un cavallo vero. L’anima è la memoria, la memoria è l’anima, il corpo/anima, il corpo recettore e generatore d’immagini, immagine esso stesso.

K effettua coscienziosamente, all’inizio, una delle sue missioni omicide. Secondo gli ordini ricevuti da Madame (la donna che è il suo capo), fa bruciare tutto, in modo che venga cancellata anche la più piccola traccia di eventuale sovversione. Il disordine è ora il nuovo tabù, assieme alla ricerca ossessiva di un ordine apparente. Ai piedi di un vecchio albero rinsecchito (un albero morto), però, vengono trovati dei resti, lo scheletro di una donna incinta, che forse (cosa inaudita) era una replicante: una replicante in grado di generare! Sempre ai piedi dell’albero, qualcuno ha inciso dei numeri. Sembra si tratti di una data, forse una data di fabbricazione. La data, infatti, corrisponde a quella incisa sotto la base del cavallino di legno che K riteneva appartenere ai ricordi artificiali inoculati nel suo cervello, e che invece ritrova (reale) nel luogo in cui credeva di averlo nascosto in sogno.

Esiste il reale, nel film di Villeneuve (a parte il cavallino), o dobbiamo considerarlo un assemblaggio di immagini virtuali, sogni e incubi? Neppure le architetture sembrano reali, neppure quel che ci viene mostrato dei resti di Los Angeles o di Las Vegas, malgrado il fatto che si citi Metropolis, o forse proprio per questo: ricordi di architetture virtuali, ora generate dagli algoritmi di un computer. In confronto, gli scheletri edilizi verticali e obliqui del vecchio Blade Runner, flagellati da una perpetua pioggia, si imponevano con molto maggiore evidenza. Di rappresentare l’istanza del reale non si dà tanto carico Gosling, il cui personaggio è tenuto sospeso fino alla fine tra due diversi tipi d’esistenza, quanto l’icona invecchiata di Harrison Ford, i suoi capelli grigi, le grinze, le rughe, le guance mal rasate, il trucco che simula assenza di trucco. Ecco un corpo! – si potrebbe dire, con Spinoza e Deleuze: un corpo che resiste, un corpo estraneo, la cui flagranza spicca nell’universo numerico computerizzato. Grazie a lui, possiamo anche passare sopra un finale forse troppo facile. Senza di lui BR2049 non si sarebbe potuto fare, o avrebbe avuto il destino dei numerosi tentativi di sequel succedutisi nel tempo (i corti 2036: Nexus Down e 2048: Nowhere to Run di Luke Scott e Blade Runner: Black Out 2022 di Shin’ichirō Watanabe).

È lui, è il suo corpo, la memoria del cinema, o almeno, d’un certo tipo di cinema.

Riferimenti bibliografici
H. Bergson, Materia e memoria: saggio sulla relazione tra corpo e spirito, Laterza, Bari-Roma  2014.
P.K. Dick, Blade Runner, Fanucci, Roma 1996.

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4 commenti

  1. ottima recensione, concordo in pieno, la memoria come anima è la caratteristica degli esseri viventi comprese le piante e gli animali, per i replicanti forse è tutto più complicato. mauridal

  2. Bella recensione, grazie! Aggiungo solo il frammento di un commento: mi sembra che nei vari interventi sul film nessuno abbia valorizzato il ruolo di Pale Fire di Nabokov (ma sono felice se qualcuno mi smente): non solo il libro appare insistentemente in casa di K, ma la filastrocca che il replicante recita nel test cui è sottoposto è tratta da un brano importante del libro (i versi 699-708 del poema che dà il titolo all’opera, versi che parlano della esperienza della morte). Fyoco Pallido è d0’altronde un testo inquietante sul potere dei ricordi, e la manipolabilità di ogni storytelling identitario. Forse l’America non esisteva prima che Nabokov e Dick la inventassero!-)

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