Pirati dei Caraibi – La maledizione della prima luna (Verbinski, 2003).

Nell’immaginario collettivo, il pirata è spesso associato a una dimensione puerile o giocosa. Non a caso è protagonista hollywoodiano di film con incassi record – mi riferisco alla saga Pirati dei Caraibi, il cui volto più rappresentativo è l’iconico capitan Jack Sparrow interpretato da Johnny Depp –, ma anche mascotte che dà il nome alla più importante squadra di football americano: i vincitori dell’ultimo Superbowl sono i bucanieri (Buccaneers) di Tampa Bay, tra le cui file milita il giocatore più forte di sempre, Tom Brady. Per un altro verso, ancora oggi nel linguaggio giornalistico e politico si ricorre a questo personaggio familiare e al contempo estraneo come arma retorica per stigmatizzare i comportamenti più diversi, dalla guida in stato di ebrezza di anonimi pirati della strada alla condotta delle ben più celebri ONG umanitarie, le cui navi sono state non di rado accusate di pirateria dalle istituzioni italiane (si pensi, ad esempio, al trattamento riservato dall’allora ministro dell’Interno alla Sea Watch 3). Nel suo ultimo lavoro (edito per DeriveApprodi), Marco Mazzeo non si sottrae a queste – e altre – ambivalenze, ma si sforza di prendere sul serio il predone dei mari, intravedendo nei volti scavati di ciurme avvinazzate un tesoro antropologico di prim’ordine, tanto ricco da mettere in altorilievo una dimensione fondamentale della vita umana: il conflitto.

La traversata prende avvio con una esplorazione etimologica: come leggiamo fin dalla quarta di copertina, in greco il pirata è «peiratés», «colui che sfida, chi fa un tentativo», parola riconducibile al verbo «peirao», che significa «provo, faccio prova, tento, sperimento» (Mazzeo 2021, p. 12), il quale a sua volta «suona vicino a un termine ben più altisonante, “empeiria”, vale a dire quel che il sommo Aristotele chiama “esperienza empirica”» (ibidem).

La scommessa di Mazzeo è che le peripezie di Francis Drake e Capitan Johnson offrano un angolo prospettico da cui mirare con maggiore chiarezza la struttura della nostra esperienza. E poiché l’«empeiria» figura proprio all’inizio del testo fondativo del pensiero occidentale, «il volume» non costituisce «un’apologia del pirata, quanto un lungo commento filosofico all’incipit della Metafisica di Aristotele» (ibidem). Solitamente si riduce «l’empirico all’estetico» (ivi, p. 23), come se lo stare al mondo tipico dell’essere umano consistesse in un’accumulazione progressiva di percezioni sensibili, prima fra tutte quella visiva. Da che siamo piccoli – questa la lettura tradizionale – non facciamo altro che osservare la realtà traendone una stratificazione conservata nella memoria, un bagaglio percettivo da cui partire per avere accesso, in un secondo momento, a una conoscenza più alta, come ad esempio quella filosofica.

Con argomenti convincenti, l’autore si oppone all’interpretazione accreditata preferendo, per così dire, il tatto (ivi, p. 21) alla vista, il mettersi alla prova all’osservazione: per fare esperienza bisogna sporcarsi le mani. Rispetto agli altri animali, il cui adattamento all’ambiente fa conto esclusivamente sul piano percettivo, l’anthropos è caratterizzato da una «debolezza organica» che richiede non il «conforto» della «sensazione», ma piuttosto il «carattere pratico empirico» (ivi, p. 25) della tecnica unita al pensiero verbale. Inadatti alla fuga o alla caccia, ci affidiamo a queste risorse, perfezionandole attraverso prove ed errori.

Conviene soffermarsi sul passaggio più delicato. Mazzeo incrocia un filone della biologia contemporanea che fa capo alle ricerche sulla neotenia di Gould (2013), secondo il quale la nostra specie è caratterizzata da una spiccata persistenza di tratti infantili anche in età adulta, con la visione dello sviluppo individuale offerta da Winnicott. In Playing and Reality (1974), lo psicanalista sostiene che i bambini si adattano al mondo esterno attraverso prove di realtà e che queste prove, quando vengono superate, hanno l’aspetto del tentativo di distruzione andato a vuoto (Mazzeo 2021, p. 18). Il seno materno acquista consistenza per l’infante dopo che il suo morso l’ha lasciato intatto, il giocattolo è reale perché non ha la forza di farlo in pezzi. Su larga scala, qualcosa del genere avviene anche quando cresciamo. L’incontro con ciò che ci circonda si caratterizza per un attrito, una «sfida» (ivi, p. 30) in cui mettersi alla prova è anche mettere alla prova. Qui c’è la scaturigine del conflitto al centro del libro: fare esperienza è scontrarsi con le cose, anche correndo il rischio di distruggerle o distruggersi. La tesi di fondo è che negli equipaggi che infestano i mari o negli hacker informatici sia condensato questo carattere conflittuale: «Il peiratés diventa il genere metonimico dell’empeiria» (ivi, p. 121), una parte che riassume il tutto, forma di vita particolare in cui si dà a vedere un tratto della vita umana in generale. Nella sfida agli oceani o agli equipaggi regolari degli imperi coloniali, nel rischio corso da chi opta per un’esistenza al di fuori dei confini dello Stato e del diritto si cela un potenziale esplorativo, che fa corpo con un uso della vita e delle facoltà sì pericoloso ma anche innovativo.

Dopo la perlustrazione preliminare con cui afferma il portato antropologico della prova (capitolo I), Il pirata percorre varie rotte: il bottino non consiste esclusivamente in un contenuto positivo, ma anche in problemi aperti, come nel caso del secondo capitolo, dedicato al tema del giuramento. Mazzeo propone una documentata archeologia, mostrando come la pirateria metta a nudo aporie e punti ciechi di questo atto linguistico così centrale nella storia istituzionale d’Occidente. Gli apologeti, da Cicerone alla filosofia del linguaggio ordinario di Austin, tendono a enfatizzare la sua efficacia nel tenere insieme linguaggio e prassi. E tuttavia, a ben guardare, si tratta di un performativo di cui, in ogni tempo, si è denunciata la crisi (ivi, p. 50): dal mondo greco e latino a quello cristiano, dal Seicento al XXI secolo, non è mai mancato chi sottolineasse la fragilità del nesso tra dire e fare.

Il pirata è l’incarnazione di questa crisi permanente: «Nemico di tutti» (ivi, p. 40), è l’eccezione legittima, contro di lui non si è obbligati al rispetto dei patti. Lo si può trasformare, come fece Elisabetta I, in corsaro, usandolo a piacimento per combattere la flotta spagnola e accumulare ricchezze impensabili (tema a cui è dedicato il capitolo successivo), ma anche ucciderlo senza commettere reato, tradendo senza dolo qualsiasi alleanza pregressa. Cicerone lo addita come «spettro dello spergiuro infedele. Viceversa il pirata finisce spesso col collo appeso perché incarna il ruolo scomodo di una visione differente» (ivi, p. 60), che non dà per scontate le istituzioni a garanzia del giuramento (per esempio la religione o lo Stato), ma che pone l’interrogativo di come costruire, contingentemente, l’accordo tra parole e cose. Benché al di fuori della legge, non mancano le comunità di pirati in grado di darsi una struttura, stabile per quanto lo consentano le circostanze, e comunque sottratta al monopolio della decisione sovrana. In altri termini, le ciurme riunite sotto la bandiera del Jolly Roger sono manifestazione vivente della storicità che segna l’esperienza anche nella sfera pubblica (e che spesso pare venire obliterata con sofisticati dispositivi ideologici, cfr. cap. IV): rivelano «la necessità umana di organizzare una convenzione di qualche tipo» (ivi, p. 60), necessità a cui si può far fronte anche senza ricorrere a strategie autoritarie.

Ed è proprio sul versante politico che indugia il capitolo finale del volume. Sorprendentemente, vi si approda attraverso il tema della tecnica. Si potrebbe pensare che la pirateria sia una curiosità ormai superata, una parentesi da declinare al passato perché legata a strumenti di navigazione obsoleti. Questa impressione viene rovesciata: «Il pirata riappare ogni qualvolta si preannunci una transizione tecnologica decisiva», che «genera nuove figure piratesche» (ivi, p. 116). Quando si impone un’innovazione, come con «la radio, il telefono, la videoriproduzione e la rete informatica, il pirata è sempre lì nella duplice veste tecnica di diffusore e sperimentatore» (ivi, p. 118). Il caso del web è emblematico: «Gli hacker si autodefiniscono “individui in esplorazione” ed “esploratori di un sistema telefonico” perché navigano sulla rete surfando su onde che la tecnica ha trasformato in successioni di numeri binari» (ivi, p. 119). La capacità di veleggiare in acque vergini resta intatta anche quando ne va di quelle «tecniche del sé che chiamiamo “istituzioni”» (ivi, p. 129).

Mazzeo insiste sul carattere non elogiativo del discorso: va mantenuto uno sguardo capace di cogliere l’ambivalenza di questa figura, che «uccide, ruba, tormenta» (ivi, p. 134). E tuttavia non possono venir taciute le forme di autogoverno delle ciurme caraibiche, che prevedevano un controllo dell’autorità ed embrioni di assistenzialismo a chi avesse subito gravi infortuni. Insidiato dal mare e braccato dalle forze armate dei governi legittimi, il pirata vive una vita «corta» ma «felice» (ivi, p. 136) anche per via delle «istituzioni sovversive» (ivi, p. 134) che ne organizzano l’esistenza. La sfida che ci «lascia in eredità» è «come realizzare una vita felice (libera, non sottomessa) e lunga» (ivi, p. 136). All’anarchismo naif di chi vede solo la bontà umana al di sotto della coltre del potere, e all’autoritarismo di chi elogia il monopolio della decisione, il pirata indica una via ambivalente fatta di prove, tentativi politici d’uso di sé che, pur non rimuovendo il loro carattere potenzialmente distruttivo (Winnicott docet), possano prefigurare un’«alternativa non autoritaria» (ivi, p. 139). Se non è molto, è già qualcosa.

Riferimenti bibliografici
S.J. Gould, Ontogenesi e filogenesi, Mimesis, Milano-Udine 2013.
D. Winnicott, Gioco e realtà, Armando Armando, Roma 1974.

Marco Mazzeo, Il pirata. Antropologia del conflitto, DeriveApprodi, Roma 2021.

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