L’essere è relazione. Il mondo è una incredibilmente fitta trama multidimensionale di relazioni spazio-temporali. Un evento o una cosa è in relazione con altri eventi o altre cose, e allo stesso tempo è in relazione con altri eventi e altre cose che lo hanno preceduto nel tempo, e con gli altri che lo seguiranno in un tempo a venire. L’idea di fondo è semplice: non esistono entità isolate, esistono solo le relazioni, o meglio ancora all’inizio, sempre, c’è un campo relazionale. In realtà il pensiero relazionale è più radicale: non è che ci sono delle entità nel campo relazionale – come se le entità e gli eventi potessero esistere indipendentemente dal campo relazionale; piuttosto eventi e relazioni sono “ispessimenti” locali del campo relazionale. Lo spazio-tempo non è una scatola che contiene le cose; al contrario le cose e gli eventi sono modi di darsi del campo relazionale. L’essere è relazione, sempre, ossia i termini della relazione – i cosiddetti relati – vengono dopo la relazione. Non è che prima esistono l’entità A da una parte e l’entità B dall’altra parte che poi, eventualmente, entrano fra loro in rapporto. No, l’idea dell’essere come relazione sostiene che prima c’è il rapporto, poi vengono le entità che si rapportano attraverso quel rapporto (è il rapporto che istituisce A e B, non sono A e B che entrano fra loro in rapporto).
Questo modo di intendere l’ontologia, cioè appunto il campo dell’essere, non è una novità – c’è sempre qualcuno che prima di noi già ha pensato quello che presuntuosamente consideriamo un “nostro” pensiero: è un corollario psicologico della tesi che non esiste nulla che non sia relazionale. Allo stesso tempo si tratta di un modo di pensare molto poco praticato, perché al contrario il modo di pensare prevalente – in particolare nella scienza pilota del nostro tempo, l’economia – si basa su un presupposto affatto contrario: prima c’è l’entità individuale, e solo in un secondo momento quest’entità può, ma non è necessario che lo faccia, entrare in relazione con altre entità. Prima l’individuo, e poi la relazione, oppure prima la relazione poi l’individuo. Tuttavia, se c’è qualcosa che il tempo del virus ci ha fatto entrare bene in testa è proprio che l’essere è relazione. In effetti, che cos’è il virus se non il caso esemplare della relazione? Come abbiamo imparato tutti il virus sopravvive solo infettando una cellula, ossia la vita del virus coincide con il processo infettivo. E che cos’è un’infezione se non il modo in cui un medico chiama quella che, da un punto di vista ontologico, non è altro che una relazione?
Il caso del virus ci permette un’altra scoperta, che il racconto dell’essere come relazione spesso rimuove, sul presupposto che la relazione sia sempre reciproca e porti benefici a tutti quelli che ne prendono parte. Il virus, come ci ricorda il bollettino quotidiano del Ministero della Salute, spesso uccide i corpi con cui è entrato in relazione. L’essere è relazione non dice solo che non esiste un’entità senza relazioni (piuttosto, un’entità è l’insieme delle sue relazioni), dice anche che le relazioni non sono mai o quasi mai equilibrate. L’essere è relazione non vuol dire che l’essere è armonia. Da questo punto di vista Il parassita, il libro del filosofo francese Michel Serres ora finalmente pubblicato in italiano (Mimesis 2022), già nel 1980 proponeva un’ontologia costruita proprio a partire dalla figura affatto relazionale, ma intrinsecamente squilibrata, del parassita. Perché il parassita, semplicemente, vive a spese di altra vita:
Parassitare significa: mangiare a fianco di. […] Lo scambio non ha luogo: non avrà mai luogo. L’abuso compare ben prima dell’uso: bisognerebbe dire abusi e costumi. Dotato di non so quale genio, colui che mangia accanto a, in breve mangia a spese di, rapidamente mangia sempre lo stesso [le même], si installa; e lo stesso [le même] dona sempre, sino allo sfinimento, talvolta sino alla morte, drogato entro una sorta di fascino. Questi non è una preda, poiché offre e continua a donare. Non è una preda, è l’ospite. L’altro [L’autre] non è un predatore, e non ha smesso di essere parassita. Direste della tetta che è la preda del bimbo? È il suo quasi-abitacolo. Orbene, questa relazione è la semplicità assoluta, non può esservi nulla di più semplice e facile: va sempre nel medesimo verso. Lo stesso [Le même] è l’ospite, lo stesso prende e mangia, senza mai vedere un ritorno. Vale per il pidocchio, così come per l’uomo (Serres 2022, pp. 29-30).
Un’ontologia parassitaria è un’ontologia che parte allora sì dalla relazione, ma anche dall’ulteriore assunto secondo cui «l’abuso compare ben prima dell’uso». L’assioma di base è che il parassita mangia a fianco di qualcun altro. Prima c’è sempre un altro da parassitare. Un altro dentro cui il parassita si installa. La vita, da questo punto di vista, è un immenso processo parassitario. Detto in altri termini, nessuno può dire di sé di non parassitare un’altra vita. Il caso del neonato rispetto al corpo materno è esemplare. La madre è l’ospite del parassita infans: «Il feto è un parassita, […] lo resta un po’ dopo la nascita. Quanto tempo? Le valutazioni variano. Al limite, è meglio dire sempre. Lo svezzamento è solo locale» (Ivi, pp. 273-274). Vista così molti comportamenti materni che ci sembrano del tutto innaturali acquistano un’altra, anche se non meno sinistra, luce.
Un’altra conseguenza di questa ontologia parassitaria, e che il tempo del virus ha reso affatto evidente, è che il parassita non può non parassitare altra vita. Nella prospettiva antirelazionale, ad esempio quella terrorizzata dal rischio del contagio, quello del parassita è un caso limite che non deve essere generalizzato: una vita “normale” non vive a spese di altra vita. La distinzione fra salute e malattia si basa sulla possibilità di isolare uno stato di vita normale, in cui le relazioni con l’esterno sono regolate e in linea di principio equilibrate, rispetto alle situazioni in cui questo stato di relativa armonia viene messo in crisi dall’irruzione di qualche elemento di disturbo. Che succede se ora la condizione normale è quella del parassita? Cioè la condizione di chi non può sopravvivere senza parassitare – cioè mangiare a fianco di – qualche altra vita? E questo significa che la relazione, in realtà, presuppone a sua volta sempre un inciampo, un disturbo che rende difficile la stessa relazione.
Ciò è generale. Non c’è mai silenzio, a rigore. Il rumore di fondo è sempre là. Se la salute si definisce attraverso il silenzio, la salute non esiste. La salute rimane la coppia messaggio-rumore. I sistemi funzionano perché non funzionano. Il non-funzionamento rimane essenziale per il funzionamento. E ciò può essere formalizzato. Siano date due posizioni e un canale. Esse scambiano, come si dice, messaggi. Se la relazione riesce, perfetta, ottimale, immediata, essa si annulla come relazione. Se essa è là, se esiste, è perché ha fallito. Essa è solo mediazione. La relazione è la non-relazione. Ed è ciò, il parassita. Il canale porta il flusso, ma non si può cancellare come canale e frena il flusso poco o molto. La comunicazione perfetta, riuscita, ottimale, non terrebbe più conto di alcuna mediazione. E il canale sparisce, nell’immediatezza. Non ci sarebbero più, da nessuna parte, spazi di trasformazione. Se ci sono canali, allora c’è rumore. Niente canale senza rumore. Il reale non è razionale. La relazione ottimale sarebbe la relazione nulla. Per definizione essa non esiste; se esiste, è inosservabile (Ivi, p. 109).
Ecco cos’è il parassita, la «non-relazione nella relazione». Senza «non-relazione», cioè senza il parassita, non c’è nemmeno la relazione. Il parassita diventa così la figura essenziale dell’ontologia relazionale, che altrimenti rischia di trasformarsi in una banalità – nessun’entità vive in isolamento rispetto alle altre entità. Certo che l’essere è relazionale, ma nel cuore dell’essere c’è un parassita non-relazionale, che mette in movimento la stessa relazione. La mette in movimento e soprattutto produce novità (ossia un inedito modo di darsi della non-relazione), ché altrimenti un mondo puramente e piattamente relazionale sarebbe un mondo sempre uguale a sé stesso: «Quando una monade chiusa capisce una monade senza contatto con l’esterno, quando un sordo ascolta un muto, succede che producano insieme un vivente del tutto nuovo, che non è mai una ripetizione. Questa nascita è una prova» (Ivi, p. 157).
Un parassita mangia a fianco di. L’ospite prova a scacciarlo, ma raramente ci riesce, dopo un po’ deve inventarsi un modo per con-vivere con il nuovo arrivato, e, se possibile, deve provare a sua volta a parassitarlo. È in questa “prova”, forse, che risiede la conseguenza più rilevante implicita nell’ontologia parassitaria di Michel Serres: non solo che non c’è nessuno che possa definire sé stesso non parassita di qualcun altro, e nemmeno che nel mondo non c’è una gerarchia assoluta fra ospiti e parassiti; in realtà “parassita” non è che un altro nome per cambiamento e innovazione:
Che cos’è un parassita? Un operatore, una relazione. Questa freccia semplice intercetta. Essa intercetta i messaggi organici in un luogo del sistema vivente. Rumore, forse, linguaggio anche, vivente spesso. […] Che cos’è un parassita? Una deviazione, minima, all’inizio, e che può restarlo fino ad annullarsi, che può crescere fino a trasformare un ordine fisiologico in un nuovo ordine (Ivi, pp. 238-239).
Il parassita, Michel Serres, a cura di Gaspare Polizzi, Mimesis, Milano 2022.