Entrato nel cinquantesimo anno, sono diventato un nostalgico. Ho comprato su Amazon le Panini dei campionati 1980-85, cerco le vecchie sitcom americane e, per puro masochismo, mi infliggo i discorsi di Capodanno di Pertini. In tempi pre-YouTube, nessuno, tanto meno il diretto interessato, pensava che qualcuno li avrebbe rivisti: infatti la prima carica dello stato finge di improvvisare, ma il sermone è lo stesso per l’intero settennato. A metà dice: «Incontro i bambini delle scuole, mi fanno domande intelligenti: ci sarà la guerra? Perché c’è la fame nel mondo? Sono tutti bravissimi». E poi: «Ecco perché sono fiducioso nel futuro dell’Italia e degli italiani». Eccetera. Chissà se il “partigiano come presidente”, come lo chiamava Toto Cutugno, si sarebbe ricreduto sapendo che quei bambini avrebbero poi votato in massa per Berlusconi, Meloni e Salvini, smanettando tutto il giorno sui touchscreen e rifiutando qualsiasi rapporto con i propri simili che non sia mediato da internet.

È solo una minima parte delle nequizie elencate nel libro Disertate di Franco Berardi Bifo e in un saggio recente di Paolo Godani. Li chiamerò “i diserzionisti”. Scrivono in un modo che a me piace molto, vanno dritti al punto, non fanno perdere tempo al lettore: una merce rara, rispetto ai soliti saggi accademici dove il cane viene portato a trottare nell’aia per un tempo infinito, prima di stramazzare dalla noia. I diserzionisti ce l’hanno con la “psico-deflazione”: in parole povere, stiamo diventando sempre più depressi, cinici, egoisti. Lavoriamo troppo in un sistema che ci isola e ci ignora.

Soluzione: disertare. Uscire dal gioco. Il gioco, ovviamente, è il lavoro. Disumanizzante, coatto, spesso insensato, perché – mal ce ne incolga – c’è l’economia neoliberale. Li capisco. Sulla carta sono insegnante ma il mio vero Beruf è non fare nulla. Passerei ore a fissare il soffitto, guardare le figurine vecchie, ascoltare Pertini. Poi apro il frigo e mi accorgo che è pieno. Quasi tutti, oggi, hanno il frigo pieno. È un record storico. Ce lo ha ricordato persino Javier Milei (per i diserzionisti, Satana in giacca e cravatta): nel 1800 il 95% della popolazione viveva in estrema povertà, oggi il 5%. Grazie al libero mercato. Non di solo pane vive l’uomo, d’accordo, però aiuta.

I diserzionisti dicono che il miglioramento delle condizioni di vita è dovuto a tutta una serie di fattori nei quali non è necessariamente contenuta l’organizzazione capitalistica del lavoro. Ma allora, come mai proprio i paesi a economia liberale sono quelli che, nel giro di pochi decenni, hanno eliminato la fame, ridotto drasticamente la mortalità infantile e reso accessibile l’università a milioni di persone che in passato a malapena sapevano leggere e scrivere? Certo, molti si chiedono: perché sprecare la vita in un lavoro malpagato o senza interesse? Perché non mollare tutto e aprire un chiringuito sull’oceano? Ma quanti, chiedo io, una volta liberi, non cadrebbero in una spirale psico-deflattiva peggiore di adesso?

Il lavoro, anche noioso, dà ritmo, scopo, connessione. Il lavoro è una serie di abitudini, spesso rassicuranti, alle quali molti aderiscono volentieri. Non è che tutti hanno voglia di leggere Joyce e ascoltare la morte di Isotta. Per questo l’idea di diserzione, in realtà, sfiora pochissimi: c’è molto benessere e sappiamo come organizzare il tempo. Conoscendo gli sfracelli che si possono presentare nella vita, è un risultato più che discreto.

Ammettiamo però che qualcuno diserti. Chi glielo impedisce? I diserzionisti parlano di gioghi che l’economia ci impone, lacci, catene, e ortopedia sociale. Può darsi. Ogni società ha le sue regole un poco oppressive. Ma la nostra non vieta a nessuno di disertare. E non è così scontato, perché altre società, invece, danno indicazioni di vita molto più stringenti. La civiltà liberale da sempre tollera che al proprio interno, soprattutto nelle città, si diffondano le forme d’esistenza più varie ed eccentriche.

Qualche anno fa ho incontrato a Parigi una ragazza straniera: viveva in un bugigattolo riscaldato in modo incerto, faceva un paio di lavori saltuari, mezza giornata l’aveva sempre libera, spesso anche la sera. Leggeva, incontrava gente, faceva cose. Viveva una vita scioperata e piacevole, e nessuno le ha mai chiesto di cambiarla. Se una scelta del genere è minoritaria, è perché vogliamo appartamenti più grandi, acqua calda a comando e champagne invece della birra Heineken. E allora lavoriamo di più. Facciamo male? Immaginiamo ora che la ragazza diventi una Greta Thunberg della diserzione, e centinaia di migliaia di parigini la imitino, decidono che avere un impiego non gli interessa più granché, preferendo vivere alla giornata, fra letture interessanti, alcolici economici e lavoretti occasionali.

Inevitabilmente buona parte dell’economia cittadina va in letargo. Alcune boulangerie abbassano le serrande, le boutique alla moda chiudono i battenti, le brasserie guadagnano meno. Le banche fuggono come topi da una nave che affonda. Ma fino a qui potrebbe anche andare. Il problema è che il valore degli immobili collassa. Ed ecco che arrivano, puntualissimi, quelli che non hanno nessuna intenzione di disertare: i cinesi, per esempio, noti per non disdegnare il lavoro. Arrivano con valigette piene di contanti, comprano interi palazzi a prezzi di saldo e in breve trasformano Parigi in una succursale di Shanghai o Shenzhen. Improvvisamente, la ragazza bohemien viene sfrattata dal suo romantico bugigattolo, perché il proprietario vende ai manager con gli occhi a mandorla che ci apriranno un beauty parlor.

Questa è la crudele ironia della diserzione: chi vuole disertare può farlo, ma se lo fanno in troppi, il sistema si indebolisce, procede a scappamento ridotto, e di solito qualcuno se ne approfitta. Quando il diserzionista sogna «un ritmo lento di sensualità», «un ascetismo orgiastico di comunità precarie», celebra il piacere delle droghe psichedeliche, sottoscrivo tutto: è il vecchio ideale epicureo, «un giardino, fichi, piccoli formaggi e insieme tre o quattro buoni amici» diceva Nietzsche. L’insouciance verso ciò ch’è stato e ciò che sarà, l’attenzione concentrata sul momento presente, mi sembra che più di ogni altra cosa si avvicini alla felicità. Ma anche la felicità ha il suo prezzo: qualcuno deve lavorare per mantenerla.

Se il disertore non succhiasse linfa dal tessuto produttivo che lo circonda, non potrebbe fare la vita che fa. Se invece di Parigi disertassimo ad Alberobello, non cambierebbe molto, perché, anche se gli speculatori immobiliari latitano, in quello specchio d’acqua ci sono i pirati Houthi che ci osservano col binocolo, pronti a piombarci addosso. E mentre siamo tre o quattro buoni amici dentro un trullo a leggere Il capitale o a prendere LSD, rischieremmo di scorgere bandiere nere che spuntano all’orizzonte del nostro piccolo, pacifico angolo di paradiso. Chi ci difenderà? Non la NATO: pure i soldati yankee avrebbero disertato. Non l’esercito europeo: la “nazista” Von der Leyen l’avremmo fatta imprigionare. La diserzione può permettersi di essere non belligerante fino a quando qualcuno si prenderà la briga di difenderla con la spada. Il disertore che amo, e che anch’io vorrei essere, è sostanzialmente un parassita. Non c’è nulla di male, va benissimo così, ma bisogna chiamare le cose col loro nome.

Per scrollarsi di dosso i problemi una volta per tutte, i diserzionisti consigliano di non riprodursi. La situazione, dicono, è già abbastanza critica così, non è il caso di peggiorarla mettendo al mondo altri, nuovi infelici. Piove sul bagnato. Sappiamo che in Italia ogni coppia ha in media 1,3 figli (un tasso di crescita minimo è raggiunto con 2,5) ma tutti i Paesi industrializzati lasciano le culle semivuote. È la prova che c’è un benessere notevole e diffuso. Lo stato sociale dà delle garanzie che non rendono più necessari i figli per il sostentamento degli anziani genitori, e, come scrive Ross Douthat, quando la ricchezza e il consumismo offrono un ampio ventaglio di opportunità quotidiane, è naturale che, almeno fino ai quarantacinque anni, investiamo il meglio di noi – tempo, energia, denaro – in noi stessi.

Chi, in tanta abbondanza, vuole dei figli tra le scatole? Sono le masse arabe e quelle subsahariane a riprodursi, non noi. Uno non può avere la culla piena e la vita ubriaca. Se la gente si riproduce, è perché non ha di meglio da fare. Noi invece ce lo abbiamo. La scelta antinatalista è una presa di posizione per il sacrosanto egoismo del singolo. Di nuovo: mi sta bene l’apologia del preservativo, ma almeno sapere di cosa si tratta. Allo stesso modo: il fatto che siamo individui scollati gli uni dagli altri, non è un triste giogo ma una scelta di libertà. Non è vero che ci incontriamo di meno e siamo diventati asociali. Prima di prendere un appuntamento dobbiamo scorrere l’agenda dieci volte per trovare un buco. Ci incontriamo moltissimo, ma in modo meno vincolante. Abbiamo voluto così e continuiamo a volerlo.

Dovremmo cospargerci il capo di cenere? Non è necessario, perché la vita prima o poi ci presenta dei conti che, con la migliore volontà, non riusciamo a saldare. Se la fidanzata ti ha piantato, credimi, non è colpa del capitalismo. Se sei depresso, non sempre c’entra la finanziarizzazione dell’economia. Se la tua missione è fallita, forse era meglio che volavi più basso. Perché non l’hai fatto? Per dimostrare qualcosa a qualcuno: un genitore inquieto, oppure un amico, o te stesso, per le tue ambizioni sbagliate. Nessuna ortopedia liberale ti ci ha costretto. Basta cercare assoluzioni.

I diserzionisti si interrogano su quale sia una forma di vita auspicabile. Più che auspicare, penso, bisogna prendere atto che uno vive come può. Né come vuole, né come deve, ma come può. Compreso chi va in ufficio e magari è un po’ frustrato, e si lamenta, ma in fondo non vuole rinunciare ai vantaggi che gli dà il lavoro. Sbaglia? «Il compito di una politica a venire» dicono «è quello di costruire le condizioni di una società estatica, favorendo lo sviluppo delle nostre facoltà non-appetitive». Ma quel futuro è adesso. Molte, piccole, comunità estatiche sono una realtà concreta e diffusa. Ogni volta che invitate degli amici a casa vostra, per esempio. Uno milita di giorno e diserta di notte, è normale. Lo facciamo da quando c’è il mondo.

Se le comunità estatiche non sono più numerose di così, è perché manca il materiale umano. Se invece fossero molto, troppo numerose, il loro peso si farebbe insostenibile per l’economia circonvicina, e il sistema crollerebbe. Oppure arriveranno li Turchi, anche se nessuno sa dire quando esattamente sbarcheranno in massa, loro che vivono male per davvero, e si riproducono a un ritmo doppio o triplo rispetto al nostro. Ma prima o poi succederà. E allora addio Epicuro, addio giardino, fichi, piccoli formaggi, e anche i tre o quattro buoni amici. Non ce ne sarà più per nessuno.

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