a mio padre
Le notizie – talvolta le foto o i brevi filmati – in arrivo dai punti più disparati del mondo sono state d’un tratto sorprendenti e concordi: ecco l’aria del cielo sopra l’Europa e la Cina – e via via dappertutto – che, svelenandosi, sembra farsi più nitida e tersa; ecco le lepri nei parchi di Milano; i cervi nel mezzo di una città del Giappone; i daini aggirarsi in una strada della periferia di Parigi e gruppi di scimmie correre nelle vie di una città della Thailandia; o, ancora, le anatre a bagno nella fontana di Piazza di Spagna a Roma, i delfini nel porto di Cagliari, le tartarughe su una spiaggia del Brasile. E che dire dell’acqua dei canali di Venezia che, depositandosi fango e liquami, si illimpidisce fino a mostrare un fondo dove nuotano i pesci e camminano i granchi?
All’improvviso questo insieme disordinato di foto satellitari, di istantanee amatoriali e comparazioni statistiche sembra delineare un mondo completo e autosufficiente, con il suo cielo dentro le mappe della Nasa, con la sua terra ormai cementificata popolata da apparizioni furtive, con i suoi bassi fondali marini veneziani, per un istante chiari. Un mondo insolito, parallelo a quello consueto. Non proprio il mondo di sempre, “naturale”, “autentico”, intessuto di idee che lo riflettono in forme ordinate; quanto piuttosto quello frutto di una “seconda genesi”, aequivoca, dove prospera la “pseudo-vegetazione e la pseudo-fauna”, in cui domina la “paccottiglia” e allignano forme-limite, dubbie, mutile, mezze naturali e mezze artificiali, dal respiro corto, «fatte per servire una volta soltanto», di cui ha parlato Bruno Schulz.
E non si tratta nemmeno, in fondo, del mondo di prima, che crede di assistere alla rinascita di una natura ancora intatta e si compiace di veder spuntare nei punti più inaspettati «un giardino pieno di piante e uno stagno pieno di pesci», o semplicemente loda la resistenza del «povero stelo costretto ad aprirsi una faticosa via tra le pietre», come scrisse Hermann Broch. Quello presente pare piuttosto un mondo scarno, ridotto, composto dalle sole citazioni delle cose, che raccoglie come l’arca del diluvio la memoria di ogni specie.
L’immagine del mondo, in altri termini, che emerge oggi dall’epidemia nasce dall’interruzione brusca e radicale della vita ordinaria, in città che, minate dall’interno, si assentano da se stesse, con gli occhi girati all’indietro come durante uno svenimento, lungo vie spente e silenziose, con animali che vi transitano solo perché al riparo dal nostro sguardo, che a sua volta ne è a conoscenza solo tramite lo schermo di un dispositivo.
Un’immagine del genere è un’immagine buia, che rinvia a una dimensione inspiegabile e sconosciuta delle cose. Essa è sospesa al filo di un’antitesi estrema, muta, secondo cui le cose rendono percepibile per un momento il loro respiro solo quando alle forme storiche e ai modi consueti della nostra esistenza viene a mancare, nello stesso momento, letteralmente il fiato. Rispetto a queste forme ormai in asfissia una simile immagine si comporta come una carta abrasiva che mette a nudo, per un istante, la condizione nella quale ci troviamo, in una progressione che dall’epidemia conduce al mutamento della natura e da quest’ultimo alla mentalità del tempo. La sola sequenza che conti.
Secondo la maggior parte delle culture orientali, ogni evento – anche la circostanza più minuta o la cosa più trascurabile – possiede un proprio, specifico centro di gravità, la cui forza d’attrazione è determinante per far sì che esso maturi rapidamente e, in assenza di ostacoli, si realizzi appieno. La regola che ne deriva è assai semplice: quanto più le cose riescono a mantenersi connesse al proprio centro tanto meglio esse arrivano a toccare il punto della loro massima espressione, il loro momento culminante, quando, immediatamente prima di disintegrarsi, possono finalmente dire di essere davvero quel che sono. L’esposizione radicale di se stessi, ossia del proprio punto culminante, è così una magistrale lezione di “bellezza” sulla verità che ciascuno incarna, la sola “dimostrazione” della verità che occorre conoscere a memoria.
L’immagine del mondo contemporaneo si caratterizza, giustappunto, per il fatto di presentare solo cose che hanno già raggiunto il loro momento culminante, di percepirle solo una volta installate in questo momento, di cogliere questo momento come il solo significativo. Qui è come se le cose avessero finito di avvenire, come se avessero toccato il limite delle loro possibilità espressive e fossero diventate tutto quello che potevano diventare.
Un simile modo d’essere non possiede più le movenze delle forme consuete, cui somiglia solo vagamente. Difatti non “scorre” tra il passato e il futuro, non procede e non avanza in alcuna direzione, non descrive alcuna traiettoria, non si lascia inquadrare né classificare. E d’altra parte, a chi si trova nel momento culminante del proprio ciclo, avendo sperimentato implicitamente tutte le modulazioni della sua presenza, non rimane che un unico passo sbarrato, quello di disintegrarsi e di sparire. Ed è precisamente questo solo, unico passo a caratterizzare il modo di essere contemporaneo: un costante, quasi impercettibile sussulto verticale tra la presenza del momento (che raccoglie tutto il tempo avuto a disposizione) e la sua sparizione; tra la scomparsa momentanea e la sua riapparizione.
Questa slogatura del divenire definisce l’odierna struttura evanescente delle cose, quella secondo cui esse vivono ogni volta per una sola volta, ogni momento per un solo momento. Sole volte di cui non si può dire che siano la “messa in atto” del possibile o la “realizzazione” del potenziale a disposizione, quanto piuttosto un fulmineo esaurimento del possibile in una volta che non appena si presenta è già svanita. Uno specifico, momentaneo, modo d’essere che non fa in tempo ad essere, un tempo morto, o per meglio dire un modo im-possibile d’essere.
In Giappone una simile condizione momentanea è esemplificata, com’è noto, dal periodo della fioritura dei ciliegi, un fenomeno che l’uso del luogo tiene in alta considerazione precisamente per via della struggente bellezza del momento culminante che in esso si dispiega. Roland Barthes descrisse questo momento nei termini seguenti: «Per i giapponesi non è propriamente parlando, il fiore di ciliegio che è bello; è il momento in cui, perfettamente fiorito, esso sta per appassire». A possedere questo medesimo carattere d’evanescenza floreale, tuttavia, non sono, appunto, solo i fiori o le cose di piccolo formato. Al pari dei gigli, delle gocce d’acqua, delle farfalle e delle mosche, delle vite troncate anzitempo e delle esistenze-soffio, oggi anche le montagne, le foreste, gli oceani, le istituzioni secolari, il cielo delle idee sussultano attorno al loro momento culminante.
Quando, per esempio, le foreste ancora esistenti ma in estinzione crescono all’ombra di una più grande foresta ormai estinta; quando la lucentezza dell’acqua del mare si avvale dei polimeri della plastica da cui è ormai indistinguibile e il suo colore convive indisturbato con la presenza dei metalli pesanti che lo hanno avvelenato, allora le foreste e gli oceani si comportano come «un fiore di solo fiore senza radici né foglie», come quel fiore il cui momento culminante coincide con il punto di mancamento, di cui solo Gli occhi negli ultimi istanti, come scriveva Kawabata, sanno riflettere la bellezza.
C’è un breve testo di Winfried G. Sebald che s’intitola Nach der Natur. Il titolo gioca con duplice significato della preposizione nach, che in tedesco – come nell’inglese after – può indicare sia “secondo” (“per volere di”, “in accordo con”) sia “dopo”. La sua traduzione può dunque essere quella di Secondo natura (come accade nella versione italiana) oppure anche Dopo la natura (come preferito nella versione francese, D’aprés nature.). I due significati sembrano comunque escludersi reciprocamente, sebbene Sebald, interessato alle infauste sorti della natura, ha lasciato verosimilmente e poeticamente intrecciati i due sensi di nach. Del resto non si può escludere che anche la “distruzione” della natura – qualcosa che la rende “postuma”, “dopo” di sé – non avvenga “secondo natura”.
Siamo da tempo testimoni, oltre che artefici, dell’irreversibile demolizione delle forme della natura “manifesta”, della natura naturata, sebbene questa abbia potuto sempre contare sulla rigenerazione costante offertole dalla sua fonte invisibile, dalla natura naturans. È invece una novità apprendere che anche la natura naturans non possieda una capacità generativa inesauribile, ma sia, al contrario, insufficiente a sostenere il ritmo accelerato che l’attuale modo di vivere le impone. La natura è dunque suscettibile di esaurimento, segnata dall’esauribilità.
Resta da chiedersi in che modo questa transizione epocale dall’inesauribile all’esauribile si rifletta sulla natura del pensiero, facilmente considerata, nel corso della storia, una potenza sempre-verde, una “inestinguibile riserva di senso”, qualcosa che raramente ha fatto rima con la momentaneità delle cose. Se l’inesauribilità del possibile (l’inesauribile “creatività” dell’essere, del tempo, del linguaggio, delle fonti naturali) sembra costituire il mito naturale, l’elemento dato per scontato e il pregiudizio imprescindibile della modernità, la nozione di esaurimento del possibile trapassa invece quest’epoca e ne costituisce il “momento culminante”, quel punto libero che essa tocca e tramite cui cade, senza mai venirne a capo.
Riferimenti bibliografici
M. Blanchot, Il libro a venire, Einaudi, Torino 1969.
G. Deleuze, Rendere udibili delle forze non udibili in se stesse, in Due regimi di folli, Torino 2010.
G.G. Filippi, La dottrina metafisica hindù sulla fine e i suoi fraintendimenti, in S. Beggiora, a cura di, Pralaya. La fine dei tempi nelle tradizioni d’oriente e d’occidente, Novalogos, Venezia 2014.
Y. Kawabata, Gli occhi negli ultimi istanti, in Romanzi e racconti, Mondadori, Milano 2013.