Non li capiamo. Degli animali non capiamo proprio niente. Ma forse è ancora peggio di così: non riusciamo nemmeno a immaginare quanto non capiamo nulla degli animali. È la prima conclusione, sconsolante ma onesta, che si prova dopo la lettura, e la visione, del libro di Caspar Henderson, Il libro degli animali a malapena immaginabili (Adelphi). In realtà degli animali sappiamo moltissimo, ma appunto, ne sappiamo moltissimo, ad esempio come si riproducono, come pensano, dove vivono, come cacciano e così via; appunto, ne sappiamo molto, ma questo non ci impedisce di continuare a non capire nulla degli animali e dell’animalità. Capire è diverso da sapere. Ad esempio, sappiamo che vuol dire vivere sul fondo degli oceani, come capita ad alcune delle stranissime creature descritte da Henderson nel suo libro, tuttavia questo non vuol dire affatto capire che cosa possa essere una vita del genere: quali abissali passioni scateni, quali pressioni richieda di sopportare, quali impensabili timori.

E non si tratta soltanto del fatto ovvio che non possiamo sentire quello che sente una di queste creature. Nonostante tutta le retorica sull’empatia, vale esattamente lo stesso per i pensieri e i sentimenti di qualunque nostro simile: i pensieri dell’altro ci sono preclusi in linea di principio (e questo, prima di essere un fatto, è una definizione dell’altro: colui i cui pensieri sono imperscrutabili). Il punto è che per capire un altro, sia questo altro nostro fratello oppure un Axolotl, la specie di salamandra che ci osserva nell’immagine qui sopra (un animale amato da Borges e Cortázar), occorrerebbe riuscire a mettere da parte proprio l’ingombro di quello che già sappiamo dell’altro. Per incontrarlo, questo altro così elusivo, sarebbe necessario avvicinarci a lui, o lei, o meglio ancora ad esso (l’altro non ha un sesso, altrimenti non è davvero un altro), come potrebbero incontrarsi due atomi all’interno di una stella. Un incontro fatale ma anche assoluto, senza mediazioni né aspettative. Se un incontro del genere è molto difficile con un nostro simile (è questo il senso del celebre aforisma lacaniano “il n’y a pas de rapport sexuel”), sembra impossibile con un vivente come quello di questo Axolotl che ci fissa da un altro mondo (gli alieni esistono, sono gli animali). Animale, in fondo, non significa nient’altro che questa impossibilità.

Ma che succede, invece, quando almeno proviamo a circoscrivere questa impossibilità di rapporto che è l’animale (a partire, naturalmente, dall’animale corporeo, il cosiddetto “nostro” corpo)? La prima scoperta, la più sconcertante per tutti quelli che quando pensano ad un animale si riferiscono al “gatto” che dormicchia sulla poltrona o al “cane” che aspetta davanti alla porta, è che l’animalità è uno spazio stracolmo di inimmaginabile diversità. D’altronde questa è sempre stata la fondamentale scoperta del naturalismo; contro chi pensa – non si sa se per ingenuità oppure per poca fantasia – che il mondo si riduca alla contrapposizione fra gli animali da un lato e l’uomo dall’altro, si apre invece l’immagine di una immensa distesa e mobile di forme in movimento. Come osservava il filosofo Bernardino Telesio, nel De rerum natura iuxta propria principia (1570), «poiché dunque risultano prodotti enti estremamente diversi e risultano mutati in conformità alla natura che si aggiunge e si allontana, questa non può affatto essere ritenuta unica, ma molteplice [multiplex] e come divisa e distinta in molte forme». La natura è questa infinita produzione di forme di vita. La pensava così anche Charles Darwin, come scrive nella celebre frase finale dell’Origine delle specie: «There is grandeur in this view of life, with its several powers, having been originally breathed into a few forms or into one; and that, whilst this planet has gone cycling on according to the fixed law of gravity, from so simple a beginning endless forms most beautiful and most wonderful have been, and are being, evolved».

Il punto è che è proprio questa radicale diversità ad essere indigeribile, perché il nostro pensiero, che invece è pigro e frettoloso, vuole poche e semplici categorie, e quella uomo-animale è la più semplice di tutte. In effetti lo stesso titolo del libro di Henderson mostra qual è il problema, l’inimmaginabilità di questi animali. Che dal loro punto di vista, ovviamente, sono gli animali che sono. Perché gli animali, appunto, sono. È la nostra immaginazione, su questo Henderson è esplicito, che non è abbastanza ricca per accogliere tutta questa diversità. In questo senso Il libro degli animali a malapena immaginabili, compreso ovviamente Homo sapiens (è uno dei “mostri” di questo bestiario contemporaneo), è un libro di filosofia nel senso pieno del termine, un libro cioè che aiuta a fare esperienza della diversità e della molteplicità. Perché l’animale è diversità. Ma allo stesso tempo, come osservavamo all’inizio, dell’animale sappiamo tutto. Ecco, nel contrasto fra ciò che sappiamo e ciò che non capiamo, ecco in quell’interstizio impensabile e inimmaginabile si colloca l’animale. Per Henderson la categoria che meglio descrive questa radicale inimmaginabilità è quella che Freud chiama il “perturbante” (Unheimlich), che discute in un celebre saggio del 1919. Henderson usa questa categoria quando descrive la murena, come quella con le fauci spalancate qui sotto.

In realtà questa categoria si applica a tutta l’animalità, anzi, l’animalità coincide con il perturbante. Per Freud «il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare» (Freud 1989, p. 82). L’animale, abbiamo detto, è proprio “ciò che ci è familiare”. Infatti sappiamo tutto dell’animale, come di questa terribile murena. Eppure, proprio perché sappiamo tutto della murena non ne capiamo niente. Per questo sono spaventose tutte quelle zanne, non perché siano pericolose (chi di noi verrà mai morso da una murena?), perché quelle zanne stanno lì a ricordarci che la murena, come qualunque altro animale, è inimmaginabile. L’animale è la nostra radicale zona di inimmaginabilità. Infatti l’animale è ovvio – che cosa c’è di strano in un animale? – ma è contemporaneamente inimmaginabile, incomprensibile, “spaventoso”. L’esperienza del “perturbante” è così quella “in cui per così dire non ci si raccapezza”. La situazione in cui non sappiamo che cosa pensare, né come pensarlo. Nell’animale vediamo quello che non dovremmo vedere, nel senso che vediamo quello che di noi stessi, del “nostro” corpo, ignoriamo, e vorremmo sempre ignorare, il fatto sconcertante che non è affatto in nostro potere, che scappa via da tutte le parti: «Il perturbante è tutto ciò che avrebbe dovuto rimanere segreto, nascosto, e che è invece affiorato» (ivi, p. 86).

Prendiamo il caso di un altro dei “mostri” del libro di Henderson, il polipo della specie Wunderpus photogenicus (si chiama proprio così, e svela la verità di cos’è che realmente ci interessa degli animali). Che cosa vediamo, in questo fantastico animale? Vediamo quello che ci mostra, che è meraviglioso, che ci offre uno stupefacente spettacolo visivo. È un attore, quest’animale. Un polipo che recita la parte dell’animale, ecco cos’è questo vivente. Ma come succede per ogni attore, che cosa c’è sotto la maschera? In realtà qui non c’è nessuna maschera, c’è solo quello che si vede. Il punto è proprio questo, che quello che si vede non ci basta mai, c’è sempre qualcos’altro che cerchiamo, una spiegazione, una fitness da scovare, un comportamento da descrivere. Ecco perché l’animale è il perturbante, perché mostra semplicemente quello che c’è, ma quello che c’è non ci basta. Tutto qui. Il perturbante è questo “spaventoso” che si apre fra ciò che sappiamo degli animali (tutto) e ciò che capiamo degli animali (niente). Il nostro sguardo curioso, e morboso, verso gli animali non fa che precipitare in questo spazio, che è inimmaginabile non perché non siamo abbastanza intelligenti per immaginarlo, al contrario, è inimmaginabile perché Homo sapiens è questa stessa inimmaginabilità. Essere umano non vuol dire altro, in fondo, non riuscire ad immaginare una vita non umana, la vita dell’Axolotl come quella della murena.

Allo stesso tempo l’animale, come ci ricordano i bestiari (come quelli raccolti nei bellissimi Bestiari tardoantichi e medievali a cura di Francesco Zambon), è sempre lì a ricordarci che un’altra vita è possibile, una vita radicalmente diversa dalla nostra. Ora, se c’è un animale che da sempre sfida il nostro pensiero, questi sono i vermi, come quello che descrive Henderson. In particolare parla del verme piatto, un animale con una caratteristica sconcertante, per noi animali tormentati dal dualismo mente/corpo: il suo «interno non ha un interno» (Henderson 2018, p. 126). Ma se non ha un interno, questo vuol dire, a rigor di logica, che non ha nemmeno un esterno; senza dentro, come può esserci un fuori? Che vita può essere, quella di un vivente che non ha interiorità, e quindi nemmeno esteriorità? Che linguaggio potrà usare, ammesso che ne usi uno, chi non ha niente di interno da esternare? Un animale senza vergogna, ma anche senza sincerità né menzogna. Pura visibilità. Le nostre categorie collassano, in questa creatura misteriosa che si fa beffe dei nostri tenaci dualismi. Forse solo nel Paradiso può vivere un animale del genere. Forse Paradiso non vuol dire altro che vivere come un verme.

D’altronde, un altro grande naturalista, Tommaso Campanella, era solito paragonare la nostra condizione a quella del verme: «Stanno come vermi dentro all’animale tutti gli animali dentro al mondo, né si pensano ch’egli sente come li vermi del nostro ventre non pensano che noi sentemo e abbiamo anima maggiore della loro, né sono animati dalla commune anima beata del mondo ma ciascuno dalla propria, come li vermi in noi, che non hanno la mente nostra per anima, ma il proprio spirito» (Campanella 2003, p. 235). Il verme (un animale che piaceva molto anche a Darwin, a cui dedicò il suo ultimo straordinario libro, The Formation of Vegetable Mould through the Action of Worms, 1881) è l’animale per eccellenza, perché in fondo non è altro che terra dentro la terra, cioè vita vivente nella vita. Perché un animale non ha bisogno di nient’altro che di vivere. Per questo continuano a stupirci, perché non hanno bisogno che della vita, come il verme della terra. Gli animali vivono, non chiedono altro; se non fosse che non ci chiedono nemmeno questo, appunto perché non hanno bisogno di chiederci nulla, sono troppo impegnati a vivere per perdere tempo con le domande.

L’ultimo animale che vogliamo ricordare di questo catalogo di animali a malapena immaginabili è la Syringammina fragilissima, una forma di vita ancora largamente sconosciuta. Quello che attira, ma anche disgusta (torna sempre il perturbante in questo libro), di questo vivente (che appartiene alla specie Xenophyophorea, “portatore di corpi estranei”) è la sua costituzione: «Questi animali fabbricano il proprio guscio (la crosta esteriore) con i frammenti morti di altre cose […] insieme a particelle di sedimenti e di materia fecale che combinano in un sottile strato di cemento roccioso […]. Nel complesso, Fragilissima è un organismo unicellulare sorprendentemente grande e privo di cervello, che aggrega a sé escrementi e pezzi di roba morta lasciandosi dietro una scia appiccicosa» (Henderson 2018, p. 424). Che cos’è la vita se non questo processo disgustoso di vita che nasce da escrementi, di nuovo che nasce da scarto, di fango che si anima per poi ridiventare fango? È questo, in fondo, che non sappiamo immaginare, la vita della vita. L’inimmaginabilità della vita. Se c’è qualcosa che la filosofia che viene dovrà provare a immaginare è proprio la vita di questo vivente dal nome così prezioso.

Riferimenti bibliografici
T. Campanella, Del senso delle cose e della magia, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003.
C. Darwin, La formazione della terra vegetale per l’azione dei lombrici con osservazioni intorno ai loro costumi, Unione Tipografico Editrice, Torino 1882.
C. Darwin, L’origine delle specie, BUR, Milano 2009.
S. Freud, Opere complete, Bollati Boringhieri, Torino 1989.
C. Henderson, Il libro degli esseri a malapena immaginabili, Adelphi, Milano 2018.
B. Telesio, De rerum natura iuxta propria principia, Carocci Editore, Roma 2013.
F. Zambon, Bestiari tardoantichi e medievali. I testi fondamentali della zoologia sacra cristiana, Bompiani, Milano 2018.

*In copertina un esemplare di Syringammina fragilissima. 

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