Tra Napoli e San Benedetto del Tronto, per fiere e giostre sul lungomare, la numerosa famiglia Caroccia si guadagna da vivere facendo lotterie ambulanti di bambole e peluches. Il padre Rosario sogna un riscatto, un balzo in avanti nella scala sociale, che passi per il talento canoro della piccola Sharon, più incline al divertimento infantile e al sogno che non alla professionalità. Ossessivamente e tenacemente, Rosario cerca invece di addestrarla, disciplinarla, addirittura pedinarla, tenendola d’occhio di continuo.
L’incipit de Il cratere, di Luca Bellino e Silvia Luzi, sembra avere il sapore di una dichiarazione di intenti: Sharon in primo piano ripassa una lezione sul verismo, poi uno stacco la mostra in controcampo davanti a uno specchio a ripeterne una sul naturalismo, in un francese carico di inflessioni campane, accennando qualche passo di danza. Uno o due discorsi (letterari) sulla realtà o sull’atto artistico di dirne, dunque, dove all’immagine di Sharon vista per la prima volta si compenetra poi quella della sua rappresentazione restituita attraverso lo specchio, un suo raddoppiamento.
Proprio intorno alla rappresentazione del reale e al raddoppiamento dell’immagine pare costruirsi il film, sia a un livello complessivo di senso e struttura, quanto a livello di una scrittura filmica che dal reale non solo trae materie – come era per i precedenti documentari degli autori, quali La minaccia (2008) su Chávez, o The Prey (2013) sulla pedofilia nella chiesa cattolica –, ma che è anche prassi, già percorso creativo che dispone le materie del film da farsi. Sharon e Rosario, infatti, sono realmente padre e figlia nella vita, lei per altro davvero cantante genere “neomelodico partenopeo”, lui accreditato come co-sceneggiatore.
I Caroccia danno così luogo a una propria rappresentazione filmica, fatta di gestualità, atteggiamenti, parole, toni di voce che sono – assai probabilmente – quelli del vero Rosario e della vera Sharon, ma prestati al racconto del teso rapporto padre-figlia che non necessariamente coincide con il rapporto reale tra i due, al di fuori dello schermo. Viene in mente, a questo proposito, uno degli scritti di Pasolini in Empirismo eretico, La paura del naturalismo, dove viene ripetuta, in forme più stringate che altrove, l’idea che il cinema sia sostanzialmente naturalistico nel suo riprodurre le cose così come esse ci appaiono. Di più: lo è addirittura fatalmente, per il suo poter dire le cose con le cose stesse: «Se attraverso il linguaggio cinematografico io voglio esprimere un facchino, prendo un facchino vero e lo riproduco: corpo e voce» scriveva Pasolini (2015, p. 65), aggiungendo che da quei singoli corpi e da quelle singole voci si può trascegliere ciò che in essi può avere valore, una qualche rilevanza ai fini del film da farsi.
È già un’operazione di montaggio, di taglio, selezione, di quanto nella materia del reale (mettiamo: Sharon e Rosario in quanto tali e oltre la rappresentazione filmica, coi loro corpi e le loro voci) può prestarsi a una sua rappresentazione (ciò che i Caroccia fanno e dicono effettivamente nel film dando luogo al racconto) che sia messa in opera – pur nel racconto più o meno finzionale – della verità di un fatto, di una persona, di una cosa, un gesto. In questo senso, la flagranza di corpi e voci innerva di reale la virtualità di un soggetto, incarnandolo.
Nella scrittura così fatalmente naturalistica del film, il montaggio non è proibito: non può inficiare l’ontologia di corpi e voci che conferiscono carne alla rappresentazione filmica. Semmai, qui è proprio la frammentazione in scene i cui legami consequenziali (e senso-motori, secondo la definizione di Deleuze) tra l’una e l’altra non si offrono a un’immediata trasparenza e restano invece da chiarirsi progressivamente, a definire più in profondità il reale nel suo rapporto con una sua messa in immagine. Sovente, il reale pone dei limiti alle nostre interpretazioni (o falsificazioni, e rappresentazioni, anche): è quello che Umberto Eco ha definito lo «zoccolo duro», e Maurizio Ferraris «inemendabilità» della realtà dei fatti, che si configura sostanzialmente come una resistenza delle cose all’intervento modellizzante del soggetto.
Sharon resiste a propria volta alla disciplina che il padre di fatto le impone, alla proiezione di Rosario su di lei dell’immagine professionale di piccola diva, sognata nevroticamente. In una delle prime scene, la televisione accesa rimanda le immagini di cantanti neomelodiche, un po’ forse invidiate e un po’ sognate da padre e figlia, mentre la famiglia Caroccia siede a tavola per la cena. Di fatto, si nutrono di miti pop in salsa partenopea, che se per la figlia sono puro sogno, per il padre sono icone completamente credute, assimilate, digerite, da emulare (diventare icona è qui il passaggio obbligato per il riscatto sociale).
Così le stesse inquadrature del film, sembrano resistere a un loro fissarsi: benché fisse addosso ai volti, restano comunque in balia di micromovimenti, fuori fuoco, aggiustamenti, in un continuo processo di adattamento del dispositivo a una scrittura in fieri in cui imprevedibilità e flagranza, di un viso e di un corpo, dirigono (e montano) lo sguardo di volta in volta su un diverso momento di realtà.
Pure, al netto di inquadrature sensibilissime al caso e all’evento e incapaci di fissarsi se non sui volti in continuo movimento, il regime visivo dell’opera è rigorosissimo: una sola ottica per tutto il film, primi piani in cui quasi mai l’ambiente è messo a fuoco (ancora Deleuze: spazio qualsiasi, allora, e luogo di affetti, relazioni, tra Rosario e Sharon), i personaggi sempre affiancati, accostati, tranne per poche eccezioni tanto più significative. Tra queste, non a caso, l’unica soggettiva del film: riconoscibilissima, perché finalmente a macchina fissa, perfettamente a fuoco, vede Sharon esibirsi su un palco, come vista da Rosario che ovviamente la riprende con una handycam.
Col “sentire meno” la macchina, che costruisce un’inquadratura trasparente, paradossalmente si finisce col “sentirla di più”. Abituati a un regime visivo di micromovimenti, piccoli, continui fremiti, ci accorgiamo della macchina da presa proprio da fissa, e, si è detto, non casualmente: è il momento in cui l’icona della piccola diva anelata da Rosario coincide perfettamente con quello che Sharon è in quel preciso istante, “fissata” in un’immagine fissa, dove però il sonoro restituisce un audio cavernoso, di soli bassi, come se qualcosa, nel divenire finalmente totalmente immagine, non potesse che andare perduto. E c’è poi, speculare per costruzione alla soggettiva descritta – riprendendo ancora il Pasolini di Empirismo eretico – una sorta di soggettiva libera indiretta, altrettanto rigorosamente costruita.
Lo stile visivo e sonoro si appropria totalmente della rabbia e della tristezza della bambina quando Sharon, dopo un brusco atteggiamento del padre, sale su una giostra, e un gioco di luci e ombre rotanti sembra alterare i suoi “musi” di bambina. Poi il suo urlo, che non sentiamo (ma, come in una sinestesia “vediamo”, per effetto di una bocca spalancata). È come se di colpo la piccola protagonista non avesse più voce, a contrasto con un sonoro fino a quel momento quasi documentaristico, e ora invece “doppiato” in colonna sonora dalle chitarre elettriche in una versione rock del brano neomelodico da lei stessa a lungo provato. Del resto, il libero indiretto era poi proprio uno dei procedimenti stilistici più cari proprio a tanta letteratura naturalista e soprattutto verista – «Malpelo […] aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone» (Verga 1986, p. 210) –, eclisse dell’autore e assunzione in blocco del discorso di un personaggio.
Il discorso di Luzi e Bellino, allora, nell’assumere quello di Sharon e Rosario (reali, filmici) e la relazione-tensione tra i due, fa gravitare tutto il film come sul margine dello specchio, sull’interstizio tra la cosa e la sua rappresentazione, tra il reale e una sua messa in immagine, tra resistenza e disciplina e lotta, anche, tra le cose e il loro fissarsi in un quadro, tra verismo e finzione, senza pendere troppo verso l’uno o l’altro dei termini, ma restando invece nel magma (di sottoculture popolari, liquide, pop e proletarie) entro il cratere, i cui margini sempre si ridefiniscono.
E come della costellazione del Cratere si vedono appena le stelle (per la troppa luminosità dei cieli urbani rispetto alla magnitudo degli astri), così della protagonista non resta poi che un’immagine registrata dalle videocamere di sorveglianza che il padre ha installato per meglio segregarla. Quanto più ci si avvicina a qualcosa, fosse anche una fonte di luce, una stella, un’icona, tanto meno la si vede. Resta, appunto, un’immagine.
Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, L’immagine-movimento. Cinema 1, Einaudi, Torino 2016.
U. Eco, I limiti dell’interpretazione, Bompiani, Milano 1990.
M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma-Bari 2012.
P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano 2015.
G. Verga, Tutte le novelle, a cura di M. Buzzi, Mursia, Milano 1986.