“Il cinema moderno è nato con l’Europa distrutta, gli italiani lo hanno inventato. Nasce con Rossellini e muore trent’anni dopo con Pasolini”. Queste parole di Serge Daney sanciscono, se ce n’era bisogno, la fondazione italiana della modernità cinematografica. Ed essendo quest’ultima anche la forma determinata in cui l’essenza del cinema si è rivelata (come pensava Bazin), ne consegue che è esistito ed esiste un legame stretto tra i caratteri del cinema italiano e l’essenza del cinema tout court.
Se il cinema è la forma di espressione che più direttamente ha corrisposto alle forme di vita capitaliste, sia come dispositivo tecnico-espressivo che economico (il rapporto del cinema con il denaro non è ancillare, ma consustanziale), questa corrispondenza ha preso due forme: quella del potere del capitale e dell’immaginario come suo mezzo di realizzazione (cinema americano), e quella che ha colto tra le macerie e i fantasmi del potere stesso la potenza della vita (cinema italiano, a partire dal neorealismo). Il Paese più giovane e cosmopolita (Stati Uniti) e la nazione con la più recente e travagliata identità (Italia), entrambi lontani dal tratto assoluto e identitario delle grandi monarchie occidentali (che si sono rispecchiate più naturalmente nella statualità del teatro), hanno usato con più forza di altri il cinema come forma di espressione vicina alla vita e ad essa strettamente intrecciata.
Il cinema americano ha riconsegnato queste forme attraverso l’azione e i generi che l’hanno rappresentata, dando vita alla costruzione del più potente ordine della mimesi novecentesco, adottabile e adottato – come intuito da Stiegler – da tutti (innumerevoli spettatori su base planetaria), e che è stato capace di adottare tutti (registi e professionalità in fuga dal nazismo). Il cinema italiano, giunto alla vita nel momento in cui l’Europa era in macerie per guerra e fine dittature, è stato invece capace di rinascere e reinventare il cinema proprio al di là dell’azione, sospendendola e sostituendola con le forme dell’erranza e della veggenza dei personaggi, con la forma-bal(l)ade del film (come detto da Deleuze), che ha destituito alle fondamenta lo schema dell’azione volontaria, segnato da obiettivi e valori, e da un soggetto forte (eroe) capace di realizzare i primi ed incarnare i secondi.
Sono due ontologie distinte in ballo, dalle radici profonde: una fondata sull’azione come forma di realizzazione compiuta della vita, con Aristotele come primo referente (ben riassunto dal successo della Poetica nelle scuole di sceneggiatura americane); un’altra incentrata invece sulla vita oltre l’azione, la “indiscriminata vita” (Alicata), la vita senza altra determinazione, che si realizza negli scarti tra un’azione e l’altra, negli intervalli di tempo, negli spazi vuoti, nel presente contingente, nell’assenza di volontà, nella reinvenzione di ciò che esiste, nello sguardo contemplativo e rituale (di cui Platone è stato il primo referente). La prima è un’ontologia della praxis, la seconda dell’essere. Per questo, oltre l’America e l’Italia (e il loro legame stretto non è stato e non è casuale), tutto il resto per il cinema è stato epifenomeno. Ma se l’ontologia della prassi si è saldata nel mythos come mimesis praxeos, quella dell’azione sospesa si è sviluppata in forma più articolata, libera e differenziata, senza il controllo dell’intreccio e della sua logica.
La sospensione dell’azione si è sviluppata, nel nostro cinema, in una duplice direttrice: nell’invenzione romanzesca del reale, avviata dal neorealismo, proseguita con forza dal cinema d’autore e giunta fino all’oggi, che ha visto la creazione di alcuni dei più grandi personaggi della nostra tradizione (tra i primi e più potenti: la Katherine di Viaggio in Italia e l’Adriana di Io la conoscevo bene); e nella costruzione di maschere, per le quali l’azione ripetuta non innova, ma conferma il carattere, il suo essere (i tipi di Sordi, da Il seduttore a Il moralista a Il vigile). E tutto questo continua ad attraversare con grande forza il presente del nostro cinema, da un lato teso ad inventare ciò che esiste e dunque a trasfigurare lo sguardo (preteso) documentario nel favolistico o nel rituale (da Le quattro volte a Bella e perduta), fino alla reinvenzione e al trascendimento della cronaca stessa, da Gomorra a Dogman; dall’altro teso ancora a tradurre il presente pubblico, sociale e politico, in maschere, come quella di Servillo/Berlusconi in Loro.
Nessun nome proprio individua il film. Dunque, nessun indice di saldatura tra destino individuale, ruolo pubblico e storia singolare nel cinema italiano, come è tipico del tragico ma anche dell’epico americano: da JFK a J. Edgar a Lincoln. Ma o personaggi-intercessori dove il nome è invenzione poetica (Il giovane favoloso) e ruolo sociale (Dogman), o la generalità del nome/maschera che trascende ogni singolarità, come ne Il caimano o Il divo. Insomma, sia attraverso i personaggi romanzeschi che le maschere della commedia, emerge come nel cinema italiano ci sia la sconfessione più radicale della forma dell’azione e della sua imputazione ad un soggetto responsabile attraverso la costruzione di una mimesi narrativa forte. Questa sconfessione va dall’episodico di Paisà a quello de I mostri, dall’erranza di Ladri di biciclette, Viaggio in Italia, La grande guerra, L’eclisse, Io la conoscevo bene, fino ad Habemus Papam, per giungere ad una forma strutturalmente imperfetta della narrazione (l’opposto delle sceneggiature di ferro americane), dove personaggi e storia debordano da tutte le parti, portando due film in uno (come nel recente Moretti), o facendo di un solo film due (come in Loro).
Se dunque il cinema, dalla modernità in poi, è stato ed è italiano, questo è accaduto per una ragione profonda, che ha saldato modi e stili di vita ad una forma espressiva capace di reinventare e credere nel mondo al di là della ontologia dell’azione e della logica dell’intreccio. Inventare il mondo non in un altrove ma qui significa incontrarlo in una contingenza singolare che non lo subordina ad alcuna storia. Incontro capace quindi di aprirsi alle rivelazioni e creazioni più sorprendenti, che anche se partono da luoghi, corpi, volti di un reale singolare sono capaci di trasfigurarlo nel modo più potente possibile. Perché il reale è tale, cioè consistente e verosimile, solo se è investito da una prassi. Ma se invece è contemplato, visionato, attraversato da “passeggiatori” e “veggenti” (come accade nel grande cinema italiano), allora quel reale diviene, attraversa gli intervalli, precipita negli scarti, si trasfigura in forma immaginaria, si rende costitutivamente “impuro” (ancora Bazin), acquistando una verità non verosimile, come testimoniano i grandi finali di film come Viaggio in Italia, L’eclisse, 8½, Buongiorno, notte, Il caimano.
Questa verità non verosimile, che rende indiscernibile reale e immaginario, soggettivo e oggettivo, è la stessa del cinema. Il cinema è l’arte fondata costitutivamente su tale indiscernibilità, nonostante si sia da sempre tentata la lettura pacificante, incentrata sull’opposizione Lumière-Méliès. Questa verità emerge quando è possibile che emerga, cioè quando crollano, con la guerra e i totalitarismi, tutte le illusioni. Solo allora il cinema, attraverso Italia, può scoprire la sua verità, cioè l’invenzione del reale come ciò che già esiste. E per fare questo, sarà la via contemplativa delle immagini piuttosto che quella pratica a guidare tale invenzione; saranno i personaggi-intercessori dell’autore a contare piuttosto che gli attanti, motori della mimesi narrativa; sarà la natura fattasi paesaggio piuttosto che quella restituita come ambiente ad avere un ruolo; sarà lo sguardo aperto alla contingenza singolare del reale a contare, piuttosto che quello orientato a dare forma allo schema senso-motorio.
E se sarà l’Italia a giocare un ruolo decisivo, questo accade sia per le ragioni di cui parla Godard nelle Histoire(s) du cinéma, nei più bei cinque minuti dedicati al cinema italiano, quando identifica nella lingua di Dante e Leopardi che si riversa nelle immagini le ragioni dell’originalità del nostro cinema; sia per quella ragione più complessa, che già Leopardi nel 1824 aveva individuato nel suo Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, che riguarda una vicinanza alla vita, una prossimità all’ordine spontaneo e caotico del vivente, che attraversa le forme di vita italiane nella sfida all’ordine sociale e istituzionale. La disattivazione dell’istanza pratica, il “dolce far niente”, che identifica in un luogo comune sull’Italia una dimensione antropologica, denota l’emergere di una ontologia destitutiva dell’azione. E che, tradotta in estetica, intreccia il senso profondo del cinema, nel quale l’attività dello sguardo si basa sulla passività dell’occhio. È il circuito dell’attivo e del passivo del cinema, che sottrae a quest’ultimo la possibilità di plasmare attivamente il sociale senza eludere la dimensione ontologica del cinema stesso.
Il cinema dunque rimane un’arte al fondo a-sociale, a-istituzionale e a-nazionale (ciò non impedisce che lo si sia usato e lo si continui ad usare in senso opposto, ma con scarsi risultati), con una dimensione planetaria e naturalmente cosmopolita, dunque legata all’economia. E in questo ha incontrato naturalmente il “costume degl’Italiani”, che sono stati sempre capaci, contrariamente che in letteratura (come intuito da Gramsci), di partire dalla loro posizione nel mondo, destitutiva di socialità, istituzionalità, nazionalità, al fondo scettica, e di restituirla sullo schermo, confermandola, riscattandola, o riconsegnandola in forma “impura” nell’abbraccio stretto tra sentimenti e visioni contrapposti e interconnessi. Per questo il cinema, dalla modernità in poi, non poteva e non può che essere italiano, per la sua capacità innovativa, contaminativa, impura, dunque vicina ad una vita indeterminata, che resiste a tradursi in una forma d’azione, in una logica narrativa. Per questo pensare il cinema italiano ha significato per molti critici (da Bazin a Daney) pensare il cinema senza altra determinazione, pensarlo ed amarlo come l’espressione più pura di una biologia delle forme (su cui torna Deleuze) che non significa naturalità e innocenza di sguardo, tutt’altro, ma processo formativo inscritto direttamente nella incompiutezza e impurità della vita, nel suo tragicomico come contrassegno espressivo più efficacemente icastico di un modo di essere al mondo.
E come non leggere alcuni film recenti secondo tale contrassegno. In Dogman di Garrone e Lazzaro felice di Alice Rohrwacher, abbiamo l’invenzione di personaggi assolutamente originali (che eccedono lo stesso film), contaminati addirittura nel loro carattere tragico da un sottofondo comico, nel tratto keatoniano di Dogman, ma anche nello sguardo spaesato di Lazzaro. Personaggi che si collocano ai bordi della vita sociale, nel punto in cui tutto può precipitare o rinascere in forma nuova, anche in forma di cane, come nel finale di Lazzaro felice (e come non pensare i tanti animali in cui rinascono i personaggi dei nostri film più recenti: dalle capre de Le quattro volte al bufalo di Bella e perduta).
Questa assoluta libertà inventiva e creativa del nostro cinema più recente (che arriva in un film come La strada di Samouni di Savona ad intrecciare perfino sguardo documentario e graphic novel) è il grande segno di composizione di un’arte che, prossima alla vita, evita di riconsegnarcela in forme codificate e prevedibili, restituendoci il tratto caotico del vivere in forme radicalmente contaminate, meticce. E dove l’umano, collocandosi in una posizione esterna/interna al sociale, si misura con la sua stessa umanità (nella permeabilità dei confini con l’animale ecc.). Questo cinema più recente si colloca in perfetta linea di continuità con il passato, e con autori quali Zavattini, De Sica, Rossellini, Fellini, Pasolini, Olmi ecc., trovando anche una potente via d’uscita immaginativa al cul de sac politico e sociale della dicotomia tra “identitario” e “straniero”. È l’identità stessa ad essere all’interno abitata da una estraneità, che impedendole di chiudersi, crea anche le condizioni per il suo continuo rinnovamento, per la sua perenne rinascita, allo stesso tempo tragica e comica.
Riferimenti bibliografici
R. De Gaetano, Cinema italiano: forme, identità, stili di vita, Pellegrini, Cosenza 2018.