Il cinema di Michelangelo Frammartino ha il ritmo del respiro. La natura, gli uomini, gli animali, i gesti, i suoni senza parole, la roccia, compongono gli elementi di un organismo che sentiamo respirare. Paul Schrader ha parlato del cineasta italiano come uno dei grandi esempi dello “Slow Cinema”. Categoria riduttiva, per Frammartino come per altri. Sentire respirare le immagini è cosa diversa. E le immagini respirano quando durano, quando il tempo si deposita nella composizione dei piani e nei loro raccordi. Le immagini respirano quando il tempo si cala nello spazio. Le immagini respirano quando non sono vincolate strettamente al racconto di una storia e alla sua spinta «centrifuga» (per dirla con Bazin). Le immagini respirano quando sentono e portano traccia di ciò da cui si generano, da ciò che non può essere visto, portato ad immagine, come la profondità e il buio.

È quello che accade ne Il buco. Siamo in Calabria, sul Pollino, nel 1961, un gruppo di giovani speleologi venuti dal Nord scopre una grotta, vi si cala per conoscerla e tracciarne una mappa. Il tutto avviene sotto gli occhi di un anziano pastore il cui volto, a cui il film dedica i rari primi pani, parla attraverso le rughe, tracce del tempo passato e dell’incidenza del sole.

Il respiro di quest’uomo si farà lungo il film sempre più flebile, come un evento tra i più naturali, dove la linea di confine tra la vita e la morte sembra addirittura non identificabile: il lento pulsare di una vena, il battito rallentato del cuore. Ma la morte di un vecchio è una cosa naturale, avverrà senza rantoli, senza grida, senza agitazioni, una morte in casa, dove la macchina da presa resterà, nel buio, quando il corpo dell’uomo oramai senza vita viene portato fuori e vengono richiuse porte e finestre. E quel buio in una casa lasciata vuota non è troppo diverso da quello della grotta in cui si calano gli speleologi, il buio non minaccioso che circonda le nostre vite e che concede loro tutta la luminosità possibile.

Ma che cos’è quella grotta in cui si calano gli speleologi? Una grotta capace di generare a posteriori figure e disegni attraverso cui ne viene tracciata la conformazione? La grotta buia e profonda (quasi 700 metri, allora la terza più profonda al mondo) è una sorta di immagine ribaltata del mito della Caverna di Platone: lì gli uomini, schiavi incatenati, vedono le ombre proiettate sul muro, fantasie che scambiano per realtà, e l’accesso alla luce solare e al mondo diviene troppo accecante; qui uomini liberi accedono ad una grotta che non contiene niente, nessuna traccia di figure, né immagini né pitture rupestri, solo pietra, umido, buio e profondità, attraversata per scoprirne i limiti. Per poi alla fine tornare su, all’erba e al sole, giocare a palla, dormire nelle tende visitati da cavalli, vivere in una condizione dove tutto è quiete segnata dai ritmi della natura e dalla gioia dell’impegno e della fatica.

Avere esperienza della grotta e del buio, sentirne profondità, umido, strettoie, come nell’ultimo intenso passaggio che compie strisciando la giovane speleologa, prima di trovarsi, muta, di fronte alla fine della grotta, è questo che conta. E tradurre questa esperienza non conoscitiva, ma che prelude alla conoscenza stessa, in un disegno che con un pennino intinto nell’inchiostro, come un pennello nel colore, lo speleologo traccia su un rotolo di carta verticale. E la macchina da presa seguirà e scoprirà lentamente il formarsi di questa immagine, conoscitiva ed estetica allo stesso tempo, in cui la grotta viene vista e prende forma lentamente dopo che se ne è fatta esperienza.

Le immagini nascono dal buio e da una esperienza che non le include all’inizio come elementi di conoscenza. Le immagini non sono illusioni che nascondono la realtà, simulacri che mascherano la verità delle cose (secondo l’idea platonica). Le immagini sono le forme in cui prende corpo l’esperienza radicale che lega l’uomo, il suo sguardo, il suo corpo, il suo respiro al mondo.

Per questo ci vuole tempo a farle nascere, per questo il cineasta stesso deve assimilare l’ambiente, sentirne l’aria, assorbirne la luce. È il “metodo Frammartino”: ci vuole tempo per far sì che un’immagina nasca, bisogna diventare speleologi per filmare le grotte, impregnarsi del paesaggio per poterlo filmare (come il meraviglioso Pollino del film). Solo questo può garantire vita alle immagini.

Certo, nel mondo circolano altre immagini, sono quelle che trasmette la televisione, quelle del grattacielo Pirelli costruito negli stessi anni a Milano (spinta verso un alto trasparente contrapposto al calarsi verso un basso roccioso), o sono le immagini dei rotocalchi, immagini della Loren, di Kennedy, le copertine di Epoca rimaste lì negli antri della roccia in seguito all’accensione di fuochi con fogli di giornale per illuminare la grotta.

Ma quelle immagini, indicative di un presente composto anche di sogni e mitologie, non sono oggetto di alcun giudizio morale. Quelle immagini garantiscono la verità delle altre, di quelle che respirano. Lo sguardo di Frammartino non giudica, anzi le accoglie, capisce che da quel raccordo non c’è tanto lo stridere degli opposti, ma il destino di cogliere l’umano sospeso in una condizione antropologico-rituale che va dalla celebrazione della messa alla visione collettiva della televisione nella piazza del paese, dal lavare i panni nel letto del fiume al salire sempre più in alto su un grattacielo.

La forza delle immagini de Il buco sta nella loro capacità di mettere in forma senza essere mai estetizzanti. Lo sguardo di Frammartino non coglie mai solo la realtà che gli sta di fronte, ma il tempo che vi si è depositato, anche nello sguardo del regista, esposto da tempo all’esperienza radicale di assimilazione del mondo e del suo respiro. La ferma distanza con cui la macchina da presa ci mostra l’arrivo degli speleologi alla stazione di Vallepiana o la preparazione dell’accampamento in prossimità della grotta, o le lavandaie, testimoniano dello sguardo come comune denominatore dello spazio e di chi vi si muove all’interno, comunque sempre in accordo anche davanti al dramma della morte.

E l’azione è di fatto assorbita da atti e gesti che si succedono in forma silenziosa, de-drammatizzata e al fondo impersonale, senza nessuna individualizzazione. Nessun nome proprio, neanche quello del vecchio pastore.

Il percorso del cinema di Frammartino qui giunge ad una maggiore radicalità rispetto al suo cinema precedente: se in Le quattro volte l’umano diveniva animale e in Alberi vegetale, qui c’è un suo divenire minerale. Ma la pietra trasuda, vive e respira essa stessa. E di quel respiro si fa carico una percezione che non è più  meramente ottica né tattile, ma capace di filmare con tutto il corpo, con i sensi, vista ed udito fattisi pura forma, generata dall’impregnazione e dal contatto lento e duraturo con il mondo.

Il buco. Regia: Michelangelo Frammartino; sceneggiatura: Michelangelo Frammartino, Giovanna Giuliani; fotografia: Renato Berta; montaggio: Benedetto Atria; scenografia: Giliano Carli; suono: Simone Paolo Olivero; costumi: Stefania Grilli; interpreti: Paolo Cossi, Jacopo Elia, Denise Trombin, Nicola Lanza, Antonio Lanza, Leonardo Larocca, Claudia Candusso, Mila Costi, Carlos Jose Crespo; produzione: Doppio Nodo Double Bind (Marco Serrecchia), Essential Filmproduktion, Société Parisienne de Production; origine: Italia, Francia, Germania; durata: 93′; anno: 2021.

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