In uno dei testi ancora oggi più acuti e illuminanti per comprendere la rilevanza storico-culturale dell’horror, Adam Lowenstein (2005) osservava come una delle caratteristiche distintive del genere fosse la sua straordinaria capacità di cogliere, quando non di preconizzare, ansie sociali emergenti, traumi sociali mai del tutto rimossi e tensioni pulsanti sottotraccia. L’immaginario cinematografico si faceva così vera e propria cartina al tornasole del presente, in una capacità diagnostica che lo rendeva capace di radiografare processi, dibattiti, mutamenti del sentire. Prendendo in esame pellicole diversissime, l’autore individuava proprio in questo tratto l’emersione dell’horror moderno, pienamente maturo, capace di assumersi la responsabilità di un discorso sull’oggi al di là di stilemi fantastici e/o goticheggianti.
Se questi rilievi mantengono una loro validità in senso generale, non si può non osservare come in un contesto di crisi multilivello come quello che stiamo attraversando, l’horror stia vivendo una stagione particolarmente fertile e felice. Al di là di singoli processi in corso che la critica e gli horror studies si sono incaricati di mappare (come la pratica del remake, che sta riportando sugli schermi figure archetipiche del genere), ciò che colpisce è la natura spesso apertamente politica dei discorsi veicolati da queste opere, la loro capacità di articolare un pensiero per immagini rispetto a temi di immediata rilevanza collettiva (pensando nuovamente ai remake, non si può non notare come la recente riproposizione de L’uomo invisibile sia soprattutto una riflessione acuta sulla violenza di genere sorta attorno al fenomeno #metoo).
Un ruolo rilevante in questo processo è senza dubbio stato esercitato da Jordan Peele, che prima e in modo più puntuale di altri ha utilizzato l’horror per decostruire narrazioni stereotipiche e smantellare aspettative consolatorie rispetto al tema della subalternità razziale nell’America post-obamiana. Scappa – Get Out (2015) e soprattutto Noi (2019) sono stati fra i più ispirati risultati di un vero e proprio fronte d’onda di horror politici che, soprattutto con riferimento agli USA, hanno saputo articolare un discorso critico nei confronti di un presente segnato da intollerabili disparità (si pensi, solo per fare qualche esempio, a La prima notte del giudizio, Antebellum, il nuovo Candyman, etc.).
L’ultimo film di Ryan Coogler, I peccatori, è un altro esempio rilevante in questo senso e si presenta come un’interessante incursione all’interno del genere da parte di un regista che, attraverso i moduli del film sportivo (Creed – Nato per combattere) o del cinecomic (Black Panther e il suo sequel), ha sempre posto la blackness al centro dei suoi interessi. Se però fino ad oggi il suo cinema era sembrato, quantomeno a chi scrive, fieramente nella media, I peccatori si distingue per una serie di trovate felici, che ne fanno un film figlio del suo tempo e capace di riflettere, pur all’interno di un registro di genere al contempo esplicitato e celebrato, sul potere politico della bianchezza (sul quale ha recentemente insistito, non a caso, un brillante libro di Mirzoeff (2023)).
Retrodatando la vicenda al 1932, Coogler mette in scena un’America provinciale, dove il ritorno a casa dei protagonisti e il tentativo di creare uno spazio dedicato alla popolazione nera diventa pretesto per l’apparizione dell’orrore (introdotto, non a caso, dall’apparizione quasi spettrale di tre bianchi alla porta del locale). La prima parte, lungamente descrittiva, tratteggia con precisione un contesto storico e culturale del quale lo spettatore sembra invitato a cogliere le invarianze, le permanenze all’interno del presente. La ricchezza dei protagonisti, acquisita ai bordi della legalità (soldi macchiati di sangue, si dice in un dialogo sin troppo istruttivo), dovrebbe diventare una sorta di ascensore sociale, anche persfuggire alle restrizioni di un costume religioso che sembra complice del processo di subalternità in cui le soggettività nere sono inserite.
Calata la notte, al ritmo di un blues ruvido e incisivo, splendidamente rimesso in scena dalle musiche dello svedese Ludwig Göransson, il film raggiunge il suo apice narrativo e visivo. È in questo momento di sospensione delle convenzioni sociali che i corpi, ritrovatisi nel safe space del locale messo in piedi dai due fratelli Smoke e Stack, si abbandonano ad una danza intrisa di piacere, anche sessuale. Che la musica sia un fenomeno antropologico profondamente complesso è apertamente postulato dal prologo, dove si anticipa la piega soprannaturale che il film è destinato a prendere. I movimenti dei corpi, animati da una musica che non sembra essere di questo mondo, fungono così da veri e propri attivatori del male, che attirano irrimediabilmente alla porta e che si manifesta nelle fattezze bianche di un gruppo di vampiri.
Anche l’associazione vampirismo/capitalismo/bianchezza è ben nota e Coogler la adopera in modo consapevole, arrivando – soprattutto nel finale del film – a interrogarsi sul senso della commistione sanguigna con il nemico, sul prezzo da pagare per l’immortalità. Si tratta di un elemento che avvicina Sinners, proprio nei suoi ultimi minuti, alla ricerca di Jordan Peele, che proprio su quest’idea di una blackness che si scopre “collaborazionista”, quando non apertamente correa, ha costruito la specificità autoriale. Cosa resta della necessità di resistenza contro un sistema di potere quando ne veniamo assorbiti? Si tratta di un tema profondo, su cui – fuor di metafora – gli studi postcoloniali si sono a lungo interrogati ma che mantiene ancora oggi la sua urgenza. Così, il film di Coogler, pur senza rinnovare le strutture del genere né articolando nuovi discorsi, ha quantomeno il merito (ed è tutt’altro che trascurabile) di mettere a sistema una serie di questioni, ponendosi così come l’ultimo anello di una catena di opere proiettate politicamente.
Riferimenti bibliografici
A. Lowenstein, Shocking Representation. Historical Trauma, National Cinema and the Modern Horror Film, Columbia University Press, New York 2005.
N. Mirzoeff, White Sight. Visual Politics and Practices of Whitness, MIT Press, Cambridge 2023.
I peccatori (Sinners). Regia: Ryan Coogler; soggetto e sceneggiatura: Ryan Coogler; montaggio: Michael P. Shawver; fotografia: Autumn Durald; musiche: Ludwig Göransson; interpreti: Michael B. Jordan, Hailee Steinfeld, Miles Caton, Jack O’Connell, Wunmi Mosaku, Jayme Lawson, Omar Benson Miller; produzione: Warner Bros, Proximity Media; scenografia: Hannah Beachler; costumi: Ruth E. Carter; origine: Stati Uniti d’America; durata: 131’; anno: 2025.