I primi quattro capitoli della saga di Hunger Games (nonché le loro originali controparti letterarie) rappresentavano già un tentativo piuttosto esplicito – rivolto al pubblico degli young-adult – di riflettere su un piano meta-mediale sulla (nostra) società dello spettacolo, sull’uso dei dispositivi di visione e sulla relazione tra media ed esseri umani. La ballata dell’usignolo e del serpente di Francis Lawrence riprende queste macro-traiettorie ampliando potenzialmente il suo target e offrendo, almeno in parte, una ri-negoziazione narrativa e visiva di dinamiche allegorico-mediali che sembrano godere di una rinnovata giovinezza, pur senza presentare niente di nuovo sul piano dei contenuti. Ma procediamo con ordine.

Il film è un prequel che condivide al contempo lo statuto del remake e dello spin-off, secondo una formula sempre più navigata da parte delle industrie cinematografiche, dal momento che permette sia di attingere a storie e immaginari condivisi alimentandoli ex-novo, che di avvicinare nuovi potenziali consumatori all’universo narrativo. Rispetto ad altri franchise (come il Wizarding World), però, la scelta di worldbuilding della Collins e di Lawrance risulta maggiormente circoscritta e strutturata, dosando con sapienza cosa dire (e soprattutto cosa non dire: neanche una parola su quello che è avvenuto prima della storia narrata, né un ipotetico cenno al dopo) e, dal momento che dialoga con un fandom cresciuto, tessendo una storia più matura già all’origine sostanzialmente indipendente dalla sua protagonista (la Katinss di Jennifer Lawrence). Il centro della narrazione era – e continua ad essere – costituito dai giochi del titolo, evocati non (sol)tanto come componente meramente ludica o di intrattenimento (Collins ha attinto al contempo ad archetipi ben navigati che vanno dai gladiatori fino alla fantascienza distopica inglese e americana), ma come dispositivo di visione e di potere. La ballata dell’usignolo e del serpente richiama a livello strutturale questa natura costitutiva degli Hunger Games, ricostruendone – in piena prospettiva archeologica, direbbe Jussi Parikka (2019) – la struttura e la profondità ontologica senza narrarne l’ontogenesi (fatto che peraltro ha infastidito buona parte dei fan del franchise, che avrebbero voluto – sin dall’uscita del libro – risposte più specifiche sulla nascita dei giochi e sui loro inventori). 

La storia dei giochi e il racconto di come le alte sfere di Capitol City cercano di renderli interessanti una volta arrivati alla decima edizione, dal momento che hanno perso l’interesse del pubblico, sono narrati tramite una prospettiva spersonalizzante totalmente incentrata sulle ricadute sociali e globali dell’evento, che appare tuttavia funzionale all’opposto processo di personalizzazione – che prende pian piano il sopravvento nel corso della trama – vissuto dal protagonista Coriolanus Snow. Del futuro presidente di Panem non è narrato il passaggio al lato oscuro alla Anakin Skywalker, poiché egli non è un semplice villain dal passato burrascoso che diventa cattivo grazie a responsabilità esterne, ma un astuto e ambiguo arrivista. Snow, infatti, acquisisce gradatamente il controllo sui giochi personalizzandoli e riconfigurandoli come cinico dispositivo di potere e di spettacolo. Spettacolo-potere, certo, è proprio quel binomio grazie al quale, dieci anni prima, erano nati gli Hunger Games. L’originalità del film sta però nel non mostrare questo binomio come un dato di fatto ontologicamente e naturalmente assodato, come avveniva nella tetralogia, ma nell’illustrare come risulti necessario che venga alimentato da un intervento esterno che lo riconfiguri come orizzonte di senso delle azioni. Così fa infatti il giovane Coriolanus, che, con la sua ambizione da studente dell’accademia che vuole riportare in auge la sua illustre famiglia ormai in decadenza, comprende le necessità dei suoi compaesani laddove la società di Capitol City sembra invece ritorcersi su sé stessa, dissolta nella sua opulenza e nella ricchezza di individui che non riescono più ad essere spettatori dello spettacolo di loro stessi, poiché completamente assuefatti dalla violenza e dalle pratiche di supremazia.

La ballata dell’usignolo e del serpente diventa allora una profonda indagine sulla relazione tra dispositivo e spettatorialità, mostrando – come direbbe Francesco Casetti (2015, p. 287) – il passaggio da «attendance a performance», poiché è proprio l’introduzione di nuove dinamiche di interattività (che donano un inedito ruolo attivo ai cittadini-spettatori) che rinegozia la stessa spettacolarità dell’evento, in cui tutti i cittadini di Panem si sentono pian piano più coinvolti perché possono partecipare tramite i loro contributi, economici ed emotivi (in una gamification distopica che è sia totale che sociale), rivolti a personaggi che hanno già conosciuto in una serie di puntate televisive in precedenza, e a cui si sono nel frattempo affezionati, nonostante sappiano moriranno. Da animali da vedere dietro la grata di uno zoo, i tributi diventano così, grazie all’azione trasformativa di Snow, dispositivi spettacolari attivi che si muovono e interagiscono con il mondo esterno: non più immagini statiche che interpellano uno spettatore posizionato, ma immagini in movimento la cui narrazione dipende strettamente dall’azione di un pubblico anch’esso in movimento. L’intuizione di Snow – quella di creare una maggior empatia tra un pubblico annoiato e i giovani provenienti dai distretti – è ricreata sul piano audiovisivo da almeno due elementi: un’attenzione sia visiva che narrativa alla dimensione archeologica e storica dei dispositivi inscenati, dai microfoni alle telecamere sino all’assenza della diretta h 24 (significativa l’inquadratura – ed è solo una delle tante – vuota dello studio degli Hunger Games in cui gli schermi dei mentori e degli strateghi presentano soltanto il logo dei giochi), e un diffuso ricorso a performance che bucano lo schermo tramite la ripresa di sguardi in macchina.

Le tecnologie primitive, su cui le inquadrature di Lawrance si soffermano, sia in efficaci primi piani che in campi lunghi e medi spesso silenziosi, mostrano embrionalmente l’evoluzione della messa in scena dello show, in cui l’antesignano presentatore Lucky Filckerman appare staticamente come un nostro conduttore degli anni cinquanta o sessanta (non come il vulcanico Ceaser di sessantaquattro anni dopo) faticando a dettare i tempi del montaggio e a dialogare attivamente con il pubblico oltre gli schermi. L’aspetto della performance, invece, è tutto in mano alla co-protagonista femminile Lucy Gray, la cui eccellente interpretazione di Rachel Zegler la allontana – ancora più che tramite la scrittura – dalla Katniss che tutti conoscevamo. Lucy non è infatti solo una cantante, ma una cantautrice, e i testi delle canzoni – che sembrano scritti nel corso dello svolgimento della trama, andandone a raccontare alcuni snodi osservati proprio dal suo specifico punto di vista – sono centrali tanto quanto la musica e la performance (non a caso, pur mantenendo la lingua originale – scelta saggia poiché l’efficacia performativa è così pienamente mantenuta –, sono presentati con la traduzione nei sottotitoli), poiché sussumono verbalmente il suo stato d’animo e il suo desiderio di rivolta sia nei confronti del pubblico di Capitol e degli altri distretti, che, infine – nella bellissima riconfigurazione (al limite del retcon) del brano già noto ai fan L’albero degli impiccati – nei confronti dello stesso Snow. 

Poco importa se l’ultimo atto – quello dedicato al rapporto tra Snow e Lucy e alla definitiva metamorfosi del villain – appare il più debole dei tre, sia stringato nell’evoluzione psicologica del protagonista che prolisso nel racconto: il film vuole soprattutto mostrare come nasce uno show mediale, anzi, quanto le persone (di Capitol City, oppure potremmo dire – fuori da allegoria – del nostro Occidente) «siano disposte a pagare per uno show», come chiede iconicamente allo stesso Snow il decano Highbootom – magistralmente interpretato da Peter Dinklage, con non pochi echi istrionici del celeberrimo Tyrion Lannister – poco prima di essere ucciso dal giovane studente dell’accademia. Il denaro diventa allora l’anello di congiunzione tra potere, spettacolo e spettatorialità: quel denaro che Snow insegue nel mirare alla borsa di studio che risolverebbe il problema della sua famiglia dallo sfratto, ma anche quel denaro che causa e alimenta in continuazione la disuguaglianza sociale tra la capitale e gli altri distretti. Così, con il denaro, tutto diventa show, anche la morte; oppure, traslando la riflessione ai nostri tempi, anche la guerra o i femminicidi. In questo modo, il film di Lawrance si pone al crocevia di dinamiche sociali molto importanti, invitando il pubblico a guardare al passato di tutto l’Occidente proprio per comprendere quando queste sono nate, e presentando la retrospettiva (reale, e non fittizia) come l’unico mezzo per poter realmente cambiare in modo attivo il presente. Il tutto, ovviamente, osservato attraverso gli sguardi espansi dei media e degli schermi che, anche se staticamente posizionati, presto si moltiplicheranno ri-locando lo spettacolo della violenza ovunque.

Riferimenti bibliografici
M. Carbone, A. C. Dalmasso, J. Bodini (a cura di), I poteri degli schermi, Milano-Udine, Mimesis, 2020.
F. Casetti, La galassia Lumière. Sette parole chiave per il cinema che viene, Milano, Bompiani, 2015.
M. Cometa, Archeologie del dispositivo. Regimi scopici della letteratura, Cosenza, Pellegrini, 2016.
J. Parikka, Archeologia dei media. Nuove prospettive per la storia e la teoria della comunicazione, Roma, Carocci, 2019.

Hunger Games. La ballata dell’usignolo e del serpente. Regia: Francis Lawrance; sceneggiatura: Micheael Lesslie, Micheael Arndt; fotografia: Jo Willems; montaggio: Mark Yoshikiwa; musiche: James Newton Howard; interpreti: Tom Blyth, Rachel Zegler, Peter Dinklage, Hunter Schafer, Viola Davis, Jason Schwartzman; produzione: Color Force, Good Universe, Scholastic; origine: Stati Uniti d’America; durata: 157’; anno: 2023.

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