Costruire una casa. Abitarla. Ereditarla e trasmetterla a chi viene dopo. Dare forma allo spazio per farne un luogo in cui vivere. Dare consistenza ad un pezzo di mondo per sentirlo proprio. La proprietà non come segno di accumulo, ma come segno che una parte del mondo, quella in cui viviamo, sia nostra, ci appartenga, nessuno ce la può togliere. Ma non è così, non è sempre così. E quando questo accade le vite ne escono sconvolte.
Lo spazio è il qui in cui si deposita il tempo passato e si apre quello futuro. Quindi è il modo in cui prende forma la vita. Le guerre sono lotte per lo spazio. Lotte paradossali che tolgono la vita con la pretesa di conquistarla. Le guerre continue non destituiscono la possibilità di vivere, ma quella di immaginare una vita, un futuro. Come viene detto da uno dei personaggi di House di Amos Gitai, uno spettacolo di grande forza, presentato al Teatro Argentina per il Romaeuropa Festival.
Intorno alla costruzione di una casa di Gerusalemme, che mai si edificherà, ruoterà una costellazione di personaggi, ebrei e palestinesi. E le storie di diaspora, di violenze subite, di libertà interdette, di spostamenti tra Medio Oriente, Europa e Stati Uniti, di sentimenti comunque lacerati da perdite, abbandoni, fughe e ritorni affolleranno il tempo di questa costruzione.
E ogni personaggio racconterà, in un suo monologo in lingua ebraica e yiddish, araba, inglese e francese, la libertà cercata (vivere con i capelli sciolti, senza chador), la spiritualità agognata (tornare in Israele dagli Stati Uniti), la ricerca di un senso nell’abitare la terra dei padri e dei nonni e non più propria.
Nel movimento lento e continuo degli attori in scena, con le musiche che dal vivo segnano il ritmo dello spettacolo, il tempo e le situazioni raccontati attraversano tutto il Novecento e giungono all’oggi. Ma senza linearità, con una andata ed un ritorno continui, che si sottraggono ad ogni possibilità di ricostruzione logica ed archeologica, di assegnazione di colpe e di cause definitive.
Quel continuo processo di espropriazione, la cui origine sembra inabissarsi nella storia del mondo, ben oltre il 1948 (anno di nascita di Israele), e a cui l’uomo sembra votarsi ben oltre le ragioni storico-politiche, non sembra aver fine se non nell’esercizio dell’immaginazione. Il compito e il dovere che l’arte deve porsi è quello di immaginare l’impossibile possibilità, cioè che un accordo umano possa trovarsi al di là delle ragioni e dei torti storici.
La notevole ed ipnotica colonna musicale, con due musicisti che suonano su impalcature ai lati della scena, con la comparsa anche di un coro, segna il ritmo dello spettacolo, e ci fa vedere il modo in cui viene ad espressione l’umano, tra violenza e morte, dolore e nostalgia. Questo modo è quello della lentezza del ritmo, del movimento dei personaggi, dello scandirsi poetico della voce e della sonorità delle differenti lingue, dell’accompagnamento musicale. Ma è anche quello delle immagini che sul grande schermo, collocato in fondo al palco, proiettano prospettive diverse su ciò che accade in scena, ma anche immagini esterne, sia di repertorio che riprese oggi sul set.
L’insieme definisce il modularsi espressivo della scena, che usa tutto questo (corpi, voci, suoni, immagini) come materiali di una poesia in cui viene ad espressione l’umanità dell’uomo. In House tutto – dalla drammaturgia agli attori alla messa in scena – sembra contribuire a comporre e ad esprimere, insieme ed oltre il contenuto rappresentato, quella comune condizione umana, quel sentimento condiviso di abitare insieme poeticamente questa terra che solo l’arte può riconsegnarci.
Per cui la domanda su che cosa possa l’arte davanti alle tragedie storiche ritorna decisiva. E nessuna semplificatoria risposta sul fatto che l’arte non possa nulla ha valore. L’arte serve proprio perché non serve. L’arte serve a costruire tramite il lavoro dell’immaginazione il sentimento di un essere universale dell’uomo oltre la determinatezza delle contingenze storiche. Questo sentimento deve essere immaginato per rendersi reale. E questa immaginazione è quanto di più reale possa esserci, e cambia i sentimenti delle persone, ridefinendo anche in un periodo bellico il perimetro possibile di un futuro comune, di un vivere insieme, di un modo possibile di trasfigurare lo spazio in cui proprio ed improprio, permanenza ed esodo, ora e allora, si accordino.
Trovare l’accordo nel disaccordo è il compito più grande dell’arte, e dell’immaginazione creatrice. Di contro alla guerra il cui primo effetto, o meglio una sorta di precondizione, è azzerare l’immaginazione, neutralizzarla, far sì che nulla sia pensabile e immaginabile altrimenti da come è. Solo partendo dagli effetti e non dalle cause della guerra (cioè dal risalimento a chi è stato il “primo” e il “maggiore” colpevole), che il conflitto può finire.
Amos Gitai che già all’ultimo Festival di Venezia con Why War aveva invocato poeticamente la pace, con House costruisce un potente rituale estetico ed espressivo, in cui la messa in scena è capace di costruire un accordo nel disaccordo, una musicalità profonda nella dissonanza, arrivando così a farci immaginare l’unico vero antidoto alla guerra, e alla tanto più insensata quanto più ciecamente convinta partigianeria di chi davanti allo scenario di oggi pensa di stare dalla giusta parte (la sua), cioè quello di immaginare poeticamente un modo di abitare il mondo, cogliendo nella distanza di lingua, cultura, esperienza, quel comune che ci rende comunque prossimi.
House. Scritto e diretto da: Amos Gitai; adattamento testo: Marie-José Sanselme, Rivka Gitai; scenografia: Amos Gitai assistente Philippine Ordinaire
costumi: Marie La Rocca assistente Isabelle Flosi; illuminazione: Jean Kalman; suono: Éric Neveux; direzione musicale: Richard Wilberforce; collaborazione video: Laurent Truchot; interpreti: Bahira Ablassi, Ghassan Ashkar, Dima Bawab, Benna Flinn, Irène Jacob, Alexey Kochetkov, Micha Lescot, Nathan Mercieca, Pini Mittelman, Kioomars Musayyebi, Menashe Noy, Danni O’Neill, Minas Qarawany; produzione: La Colline – théâtre national, in corealizzazione con Fondazione Teatro di Roma; durata: 120′; anno: 2024.