La prima parte di Horizon: An American Saga alimenta il mito di fondazione di una cittadina nel West che attrae a sé tutte le genti, come l’America stessa; e proprio come la nazione, anche Horizon nasce dal conflitto, dalla violenza, dalla conquista. L’ambiziosa sceneggiatura, scritta da Kevin Costner e Jon Baird nel corso di molti anni, ha un disegno spazialmente convergente e temporalmente alternante.
Le vicende principali si svolgono prima e dopo la guerra civile americana. I coloni di Horizon, nella San Pedro Valley, hanno fondato una piccola comunità ma vengono falcidiati dagli Apache, e alcuni superstiti ricevono la protezione dell’esercito unionista; nel frattempo, i vendicativi fratelli Sykes lasciano una scia di sangue tra il Montana e il Wyoming per riparare un torto subito, ma la loro strada si incrocia con quella di un venditore di cavalli (interpretato da Costner) che non ha intenzione di subirne le prepotenze; una nuova carovana di coloni si muove verso Horizon, mentre altri superstiti della prima comunità si impegnano in una caccia agli Apache.
La scena che fonda l’immaginario di Horizon è quella iniziale della misurazione dei terreni di San Pedro Valley: la rappresentazione scientifica del mondo è alla base della sua territorializzazione ed è proprio “nello sforzo di conoscere una forma geografica, di oggettivarla”, che ci si pone la questione “di giudicarla, di valutarne l’abitabilità, di addomesticarla” (Furia 2023, p. 47). Il western, insieme al war movie, è il genere più incline alla rappresentazione dei processi trasformativi di uno spazio in un territorio, è il genere più animato dal desiderio di territorialità.
Nello stesso tempo, Horizon ci dimostra che il film western ci restituisce il desiderio di appaesamento, di radici, di località: lo spazio che non conosce la Storia, lo spazio fermo, bloccato nell’ordine dei coesistenti, viene sbloccato dai coloni alla ricerca di un luogo, secondo le regole di un processo trasformativo che richiede un forte lavoro di immaginazione spaziale. Ecco allora la sequenza che rappresenta la celebrazione dell’appaesamento, la festa danzante sotto i grandi tendoni bianchi illuminati, che però si conclude con l’attacco degli Apache e prosegue con l’altra scena archetipica, griffithiana, dell’assedio domestico. In questa linea immaginativa c’è posto, più avanti, anche per un allestimento commedico, perché la produzione di località ha bisogno anche di accordo, relazione, gioco, prosecuzione nel simile.
L’altra grande linea narrativa è quella ambientale che attraversa l’ampio ecosistema della vendetta: la spinta all’azione risolutiva che però è utopica, perché nessuna sede accoglierà mai l’ultimo atto, la vendetta è sempre procrastinata perché ogni azione violenta ne chiama un’altra, in una concatenazione causale che non ha mai fine. I due fratelli Sykes incarnano rispettivamente la razionalità e la follia della violenza; in particolare il fratello folle, Caleb, gode di una grande interpretazione attoriale da parte di Jamie Campbell Bower, impegnato in una performance tesissima incentrata sulla perdita costante del controllo di sé.
Su questa linea ambientale si innesta il percorso del venditore di cavalli, un Costner votato all’understatement che lavora sull’archetipo dell’uomo giusto. Il duello con Caleb, preceduto da una lunga passeggiata in salita, è un capolavoro di architettura della parola e del gesto, una straordinaria coreografia tragica, che procede di movimento in movimento verso lo scioglimento (l’ordine dei successivi, ossia la morte al lavoro), uno dei momenti più alti del western contemporaneo.
La complessità di questo materiale narrativo porta Costner a scelte di campo molto nette, ma ragionare per analogia sulla serialità televisiva contemporanea (pista suggerita dal coinvolgimento del montatore delle serie Marvel, Miklos Wright) sarebbe totalmente fuorviante: in Horizon non c’è spazio per la condensazione, per la sequenza a episodi (se non nel finale, che è un teaser del secondo capitolo), per la sintesi. Per Costner ciò che è importante è messo in scena intensamente e compiutamente, ciò che non è importante non è proprio mostrato. In questo modo il film mette alla prova lo spettatore, che non ha mai tutte le informazioni che vorrebbe, ma gli restituisce in cambio grandi, potenti scene che si svolgono in una porzione del campo degli eventi. L’elenco di queste grandi scene, solo in questo pur lungo primo capitolo di Horizon, sarebbe già molto ampio: l’attacco dei cacciatori di Apache nel villaggio sguarnito, in cui ci sono solo donne e bambini, ne è un altro esempio mirabile.
Ciò che tiene insieme le tre ore di film, allora, non è tanto il congegno narrativo quanto la funzione atmosferica, quell’insieme di elementi (luministici, cromatici, scenografici, sonori) non necessariamente riconducibili a una struttura semantico-sintattica di genere perché non fondati «semioticamente sul rinvio segnico» (Griffero 2017, p. 27), ma allo stesso modo immediatamente riconoscibili perché improntati all’irradiazione di valori emozionali. Prendiamo ad esempio il vero e proprio tour-de-force musicale allestito da John Debney, con una quantità di temi destinati a personaggi e linee narrative, con tante variazioni e sviluppi; il vero punto di forza di questa musica è atmosferico perché trasmette, irradia valori emozionali che rinviano all’atmosfera western, essenziale per l’apprezzamento del film.
Allo stesso modo, la fotografia di J. Michael Muro rinvia al western a colori di William Clothier (Il grande sentiero di John Ford su tutti) e mette in valore gli spazi a perdita d’occhio in cui il segno antropico è marginale, minoritario eppure pervicace e resiliente; la mobilità della macchina da presa, costantemente reinquadrante, è pienamente coerente con un formato del quadro molto interessante (1,85:1) che domanda il movimento centrifugo perché è un formato sottrattivo rispetto al bulimico cinemascope.
Film dell’immaginazione spaziale di una terra sempre all’orizzonte, film territoriale, locale, ambientale e atmosferico, Horizon: An American Saga, per quanto detto, ci appare in ultima analisi come un film profondamente filosofico, ma di una filosofia intesa come «autoriflessione dell’uomo circa il modo in cui egli si orienta nel proprio ambiente» (Schmitz 1994, p. 11), che trova nel western una sede elettiva.
Riferimenti bibliografici
P. Furia, Spaesamento. Esperienza estetico-geografica, Meltemi, Milano 2023.
T. Griffero, Atmosferologia. Estetica degli spazi emozionali, seconda edizione, Mimesis, Milano-Udine 2017.
H. Schmitz, Der unerschöpfliche Gegenstand: Grundzüge der Philosophie, Bouvier, Bonn 1990.
Horizon: An American Saga. Capitolo 1. Regia: Kevin Costner; sceneggiatura: Kevin Costner, Jon Baird; fotografia: J. Michael Muro; montaggio: Miklos Wright; interpreti: Kevin Costner, Sienna Miller, Sam Worthington, Giovanni Ribisi, Abbey Lee; produzione: New Line Cinema, Territory Pictures Entertainment; distribuzione: Warner Bros; origine: Stati Uniti; durata: 181’; anno: 2024.