
Si sa che il guardare come entrare in relazione con un mondo può essere atto anche politico. Di quali sensi si carichi la politicità di quell’atto, cosa significhi la sua concreta esperienza nelle vite quotidiane dell’Italia di oggi, è l’interrogativo che muove il film Dove bisogna stare, di Daniele Gaglianone e Stefano Collizzolli (concepito a due, benché la regia sia firmata solo dal primo).
Quattro vite di donne che, entrate in contatto con gruppi di migranti in accampamenti di fortuna, in strada, argini di fiume, e comunque esclusi dai centri d’accoglienza dello Stato, hanno preso spontaneamente a offrire loro aiuto in varie forme: cure mediche, accoglienza nella propria casa o sistemazione in abitazioni abbandonate, supporto nella gestione di pratiche burocratiche di documenti e permessi.
Dove il film ha il cuore (il suo dove bisogna stare) è l’idea che in prima e più determinante istanza, l’impegno delle quattro donne scaturisce e si alimenta semplicemente nella forma di un “andare a vedere”. Coerentemente, è la forma che il film s’imprime, come emerge con cristallina evidenza sin dalle prime battute. È così quando, in apertura, la macchina da presa pedina Lorena, psicoterapeuta friulana che, percorrendo un ponte ferroviario, cerca e chiama migranti che sostano in quella zona. Il film va con lei a vedere.
Poco dopo, nell’alta Valsusa va con Elena, che ospita e cura nella propria casa un giovane del Camerun, ritrovato coi piedi congelati, smarritosi provando ad arrivare in Francia. Al telefono, Elena dice di essere andata a vedere la “situazione della neve”, perché può darsi che qualcuno provi comunque a transitare il confine. E così Georgia, di Como, che andando a lavoro si era poi fermata a dare una mano in un accampamento di qua dalla frontiera svizzera chiusa, e Jessica, che a Cosenza collabora col centro sociale Rialzo, impegnata per lo più nella ricerca di tetti e letti, e curare difficoltà di convivenza tra differenti etnie. Dell’essere tutte “andate a vedere”, il film partecipa, ora osservandone-pedinandone-seguendone le forme di assistenza, ora lasciando fluire il racconto che ciascuna fa alla macchina.
Sono donne che non avrebbero nulla in comune (età, provenienza, professioni, ecc.), se non il vivere ciascuna in zone “di frontiera”, il Friuli, la Val di Susa, la Lombardia a un passo dalla Svizzera, o, in un senso non troppo diverso, il Sud. Nel film non solo la frontiera è confine tra Stati, e dunque insieme di punti tra l’uno e l’altro, e punto quanto mai caldo delle contemporanee politiche nazionali e internazionali in materia di migrazioni. Frontiera è qui da intendersi nel senso più intimo del suo etimo, come ricordato da Franco Cassano nel suo Pensiero Meridiano. Essa è innanzitutto un posto in cui si sta di fronte gli uni agli altri, dove accade di incontrarsi. E, per prima cosa, prima ancora di nominarsi, aggettivarsi identità e intenzioni (straniero o no, amico o no), ci si guarda, ci si va a vedere.

Allo stesso modo le quattro donne stanno di fronte alla macchina che è lì a vederle raccontarsi, che sia semplicemente parlando, o ci si danno a vedere nella concretezza delle varie forme del loro impegno. Che le vede letteralmente faccia a faccia con le persone di cui si occupano, sedute a un banco dove spiegano un qualche iter burocratico, a portar medicinali in un accampamento, a curare arti congelati. Quello starsi faccia a faccia è però anche un far fronte a determinate criticità e necessità immediate, difficoltà istituzionali (documenti, cibo, alloggi). O è fronteggiare le tensioni tra gruppi di stranieri tra loro diffidenti che condividono i medesimi spazi abitativi, ma affinché si stiano di fronte, diversissimi come sono e simili nel comune essere di frontiera.
Bisogna restare, quindi, comunque lì, con tutte le difficoltà del caso, e non perché lo imponga qualche norma trascendente o valore astratto. Infatti, ciascuna raccontandosi secondo la propria esperienza, secondo il proprio linguaggio, nelle rispettive differenze, sembra concordare con l’altra almeno in un punto: non si sono chieste poi molto in nome di quale perché agire e restare. Era un puro sentire: guardarsi sulla frontiera e vedere l’altrui volto significava immediatamente una qualche forma di impegno, se, come sosteneva Lévinas, ogni «accesso al volto è immediatamente etico» (Lévinas 2012, p. 87), conditio prima di ogni dialogo, apertura alla relazione alla responsabilità, inteso come rispondere per qualcuno.
Pure, di volti degli “altri”, nel film non se ne vedono poi molti direttamente. Conta piuttosto che la macchina da presa stia di fronte all’impegno cui quei volti chiamano, e che volto (forma, senso) ha il sentirsi responsabili, in quale forma di vita si traduca. Conta che il volto che si ha di fronte e di cui si deve rispondere sia il più vicino, il più urgente. Sulla nazionalità di quel volto, si impone e prevale la sua prossimità, la sua contingenza, la sua flagranza che impone di stare dove occorre.
Si è detto di come l’immagine partecipi di un “andare a vedere” di queste donne, di come stia loro di fronte, osservando e restando in ascolto. Il film accosta gradualmente e lascia emergere man mano il senso del loro impegno, che affiora quindi come per approssimazioni successive, e promana da gesti, pratiche, riflessioni, ricordi. Se il montaggio restituisce ora la voce e l’agire di una, poi di un’altra, e un’altra ancora, si ha l’impressione che le loro testimonianze ed esperienze benché singolari siano altrettanto comuni e comunicabili, condivisibili, sfumate tra loro le frontiere.

È la stessa inquadratura a volersi, a tratti, come fuori dalle proprie frontiere, a turbare-sporcare il proprio quadro, ad aprirlo in maniera repentina e frenetica ad altre visioni, ogni qual volta il racconto di una delle quattro donne è inframezzato da piani ripresi da una macchina a mano instabile. Oppure, sul sonoro di quelle voci si innestano materiali di repertorio, da notiziari, immagini più o meno note e “molto viste” della contemporaneità.
E, più in generale, fanno la loro comparsa riprese effettuate con altri supporti: Lorena, in casa, guarda su computer un filmato di qualche tempo prima, che la vede in uno degli accampamenti, poi “sgomberati”. La sua voce informa che dopo lo sfollamento, gli stranieri lì ripresi e approdati alla “strada”, hanno commesso piccoli reati. È ancora un guardare che apre a una dimensione etica, che nella forma semplice del ricordo, del commento, chiama in causa altre responsabilità politiche e istituzionali.
Si direbbe allora che l’impegno di queste donne, il loro essere lì dove bisogna stare non subordinando il proprio agire ad altra norma che non sia il puro entrare in relazione con la prossimità dell’altro, sia senza uniforme, prendendo in prestito la definizione godardiana del cinema italiano. Un cinema che si pensa come prossimo alla vita, e che ha ampiamente messo in forma un sentimento delle prossimità tra individui come riconoscimento di una comune marginalità (o di un comune essere di frontiera), che prevale su qualsiasi nazionalismo, istituzione, norma trascendente. Ed è possibilità di aggregazione tra umani che prescinde da ogni uniforme.
Del resto, Gaglianone e Collizzolli hanno fatto prossime le esperienze di Lorena, Jessica, Elena, Georgia, e il loro essere nettamente in controtendenza rispetto alle politiche nazionali in materia di accoglienza, sono “andati a vedere” dove bisogna stare.

Riferimenti bibliografici
R. De Gaetano, a cura di, Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita, Mimesis, Milano-Udine, 2014.
F. Cassano, Pensiero Meridiano, Laterza, Roma-Bari 2003.
E. Lévinas, P. Nemo, Etica e infinito. Dialoghi con Philippe Nemo, Castelvecchi, Roma 2012.