Il cinema americano torna costantemente al passato, e il Nostalgia Film ha funzionato in era postmoderna non tanto come una macchina del tempo, ma come congegno mitopoietico. Film certamente molto differenti come L’ultimo spettacolo (Bogdanovich, 1971) e Grease (Kleiser, 1978) avevano in comune ciò che Marc Le Sueur definiva “realismo di superficie”, ossia generato da oggetti iconici, e “deliberato arcaismo”, ossia tendenza ad assumere atteggiamenti stilistici e comunicativi dei media nell’epoca rappresentata (formato dell’immagine, tavolozza cromatica). Teorici come Fredric Jameson ritenevano del tutto incompatibile il Nostalgia Film con l’autenticità storica; e a proposito del decennio prediletto dai film nostalgici, Christine Sprengler ha sottolineato la differenza strutturale tra i Fifties (il mito degli anni cinquanta) e i 1950s (il periodo storico nella sua complessità sociale, politica e culturale).
Green Book, prima regia “in solitaria” per il maggiore dei fratelli Farrelly, è ambientato negli anni sessanta ed è soprattutto il tentativo di tenere insieme mito e storia, Sixties e 1960s. La storia in sé è troppo densa, stratificata, complessa per stare in un film; il mito applicato alla storia la sfronda e la linearizza, la semplifica senza per questo tradirla. La vicenda di Green Book è tratta da un’esperienza vissuta dal pianista afroamericano Don Shirley nell’inverno del 1962 in tour nel profondo Sud degli Stati Uniti, in compagnia di Frank “Tony Lip” Vallelonga, autista e guardia del corpo. Shirley è stato un musicista jazz attivo in un filone di ricerca all’epoca abbastanza rilevante, oggi piuttosto dimenticato, quello del Third Stream, caratterizzato dalla contaminazione tra la musica classica e il jazz: la sfida era quella di accreditare questi musicisti e il loro stile in ambito colto; se il Modern Jazz Quartet ne fu il massimo interprete, Don Shirley ebbe comunque il suo buon periodo a cavallo tra i cinquanta e i sessanta.
In questo senso, la struttura narrativa di Green Book parte dalla constatazione di un opposto deficit epistemico: Don Shirley è un nero che non conosce la propria cultura e si compiace del consenso della borghesia bianca; Tony Lip è un italoamericano che si compiace del consenso dei propri simili ma che non sa nulla del resto del mondo. La configurazione itinerante del road movie consente ai due opposti di conoscersi e di fare un percorso sia verso l’altro da sé, sia verso una parte di sé mai esplorata.
Il selvatico Tony comincia a scrivere lettere alla moglie, in cui le spiega quanto grande e bella sia l’America: “Non ho mai saputo quanto fosse meraviglioso questo paese, non puoi immaginare quanto sia bella la natura, è bella come dicono”. Il coltissimo Don Shirley comincia ad ascoltare la musica dei neri alla radio, il rock’n’roll di Little Richard, il rhythm and blues di Aretha Franklin. Tony scopre la scrittura, la metafora, l’astrazione; Don scende dal piedistallo e comprende che un gesto politico, come il tour di un pianista afroamericano negli stati del sud, non può essere un gesto astratto, ma deve incarnarsi in un conflitto anche fisico.
Questa prima uscita di un Farrelly solista non è l’eccezione a una regola familiare, quella della commedia “scorretta” che ha dato la fama al marchio Farrelly. Al contrario, è un’opera che si inscrive nel quadro delle strutture profonde di quel loro cinema profondamente umanista. In un saggio di qualche anno fa con Enrico Terrone cercammo di individuare alcune varianti di quell’approccio al cinema che generava i cosiddetti “filmetti”, commedie che non stavano né pienamente nel mainstream né tantomeno nel perimetro del cinema d’autore, e Green Book conserva senza dubbio quei tratti distintivi. Vediamone alcuni.
In accordo con la funzione strutturale del soggetto esposta da Noēl Burch, questo tipo di film fa proliferare una cellula tematica, situazione per situazione, scena per scena, sino alla conclusione. In Green Book si dice che l’intelletto e la sensibilità hanno bisogno l’uno dell’altra (“il genio non è sufficiente” si sente dire da uno dei musicisti del trio di Don Shirley); nella versione di Kant, i pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetto sono cieche. In secondo luogo, le idee si incarnano alla lettera negli attori prima ancora che nei personaggi, per cui quello dei Farrelly è un cinema iper-incarnato e iper-recitato (Viggo Mortensen grasso e vorace, Mahershala Ali etereo e trattenuto).
Come estensione del corpo, le scenografie dei film dei Farrelly sono ambienti parlanti, che in questo caso non si limitano a inventare i Sixties ma contribuiscono strutturalmente alla proliferazione del tema: nella scena che precede il finale, Don Shirley è solo nel suo sontuoso appartamento pieno di oggetti, ma gli manca qualcosa, perché “il genio non è abbastanza”; tuttavia, mentre all’inizio della storia non sapeva cosa gli mancasse, ora lo sa, e dunque si sposta da una casa piena di cose verso una casa piena di persone. Anche l’arco di trasformazione interiore dell’autista è fissato agli estremi dalla presenza di oggetti simbolici: all’inizio del film getta nella spazzatura i bicchieri in cui hanno bevuto due operai afroamericani, nell’ultima è pronto ad accogliere l’amico con cui ha viaggiato e ha fatto l’esperienza che gli ha consentito di abbandonare il vecchio sé.
Stilisticamente, Green Book è un ottimo caso di “passo indietro” di una regia che mette lo stile al servizio dei corpi e dei luoghi incontrati: la tipica inquadratura farrelliana è centripeta, ciò che è importante da vedere si trova al centro del quadro, in una composizione bilanciata e chiara. Queste inquadrature vengono poi impaginate in uno stile solo apparentemente invisibile; la sequenza a episodi, per esempio, è un marchio di fabbrica dei Farrelly fin dai tempi di Dumb and Dumber (1994), e in Green Book se ne fa largo uso; ma anche il già citato finale ha molte qualità sintattiche, dal disegno convergente ai vertiginosi raccordi sull’asse, e giustifica anche da solo la candidatura all’Oscar per il miglior montaggio.
In verità ogni intervento discorsivo in Green Book ha la capacità di lavorare sottotraccia, come per costruire un altro film nell’ombra, che consente al film in superficie di scintillare. Per fare un esempio, la colonna musicale di Green Book si ascolta in superficie come un jukebox o una radio d’epoca, da cui partono canzoni di scena o di commento nella quantità di un American Graffiti; alle canzoni si alternano le performance di Don Shirley. In realtà non è così semplice: anzitutto il repertorio di Shirley (la musica di scena) è interamente risuonato da Kris Bowers, un grande pianista jazz di formazione classica, dunque uno Shirley di oggi; ma c’è ancora un altro musicista nell’ombra. È lo stesso Bowers come autore delle musiche di commento, che sembrano non esserci ma ci sono: nella scena in cui Shirley copre i lividi sul volto con il trucco, in campo sonoro sale lentamente una trama d’archi sorvegliatissima e riservata, che rifiuta qualunque concessione al tematismo per creare invece un doloroso paesaggio di timbri. In questo senso, Green Book è un film plurale, in cui profondità e superficie, storia e mito sono messi in tensione senza alcuno sforzo apparente.
Riferimenti bibliografici
L. Bandirali, E. Terrone, Apologia del filmetto. I fiori segreti della commedia contemporanea, in “Segnocinema”, n. 134, 2005.
M. Le Sueur, Theory Number Five: Anatomia of Nostalgia Films. Heritage and Methods, in “Journal of Popular Film”, n. 2, 1977.
C. Sprengler, Screening Nostalgia. Populuxe Props and Technicolor Aesthetics in Contemporary American Film Berghahn Books, New York-Oxford 2009.