Due appartamenti separati da un pianerottolo. Sei ragazzi, tre maschi e tre femmine, amici tra di loro. Diverse combinazioni che portano a belle e lunghe storie d’amore (o anche a semplici avventure). Fuori dalle finestre Manhattan, che arriva a noi giusto attraverso qualche establishing shot di raccordo – di solito Washington Square. La facciata grigia di un palazzo ripreso sempre rigorosamente dalla stessa angolazione (nel senso che si tratta sempre della stessa inquadratura). Un caffè sotto casa – in realtà a pochi metri più a destra del set principale, su uno dei palcoscenici per anni più applauditi degli Studios – che storpia il nome del parco più importante del mondo.

Di questi elementi si compone la sitcom più famosa della Storia, che ha fatto e continua a fare scuola a tutti i prodotti, più o meno originali, appartenenti a questo genere. Senza Friends non sarebbero esistite le tanto acclamate Big Bang Theory o How I Met Your Mother – e chi afferma che quest’ultima in particolare supera per ritmi comici e atmosfere più adeguabili al contemporaneo la creazione di David Crane e Marta Kauffman dovrebbe fermarsi a pensare per un attimo se ha senso dire che, non so, la pizza alla diavola è più gustosa e sorprendente della pizza margherita.

Celebrare oggi i trent’anni da quel primo episodio, il 22 settembre del 1994, al netto delle varie (drammatiche e non) occasioni che in tempi recenti hanno visto ribadire la potenza della serie nelle coscienze emotive di milioni di spettatori – la “Reunion” del 2021, la morte di Chandler, in arte Matthew Perry, nel 2023 – aprirebbe a sin troppe riflessioni sul perché quell’idea allora funzionò così tanto e portò sei giovani attori (qualcuno di loro già conosciuto al grande pubblico) a diventare un modello per almeno tre generazioni.

Un ragionamento sicuramente va fatto sui motivi che portano quei 236 episodi da 20 minuti l’uno a comparire costantemente tra gli oggetti più proposti (perché più visti da tutti noi) da Netflix. Una delle risposte è senza dubbio la seguente: Friends risulta ancora oggi un perfetto antidoto contro ansia, depressione, solitudine – tutte condizioni ogni giorno più comuni, non parliamo poi dell’incremento dato dalla pandemia. È incredibile quante persone (vi basti chiedere in giro) accendano lo schermo di casa a qualsiasi orario del giorno – anche fuori dai momenti dedicati alle “visioni ufficiali”, per così dire – godendosi (perlomeno con l’ascolto) in loop qualche episodio già visto e rivisto settimane, mesi, anni, decenni prima. Quello che colpisce è cioè che Friends, al contrario di molti oggetti analoghi, è con tale forza entrato nelle case da essere diventato – letteralmente – parte di esse: una delle stanze della nostra abitazione, su cui possiamo affacciarci quando lo desideriamo o che possiamo permetterci persino di lasciare chiusa ascoltando da dietro la porta ciò che accade (tanto lo sappiamo perfettamente, ci basta anche solo ricordarcelo distrattamente, mentre facciamo altro).

Il punto è proprio questo: Friends rappresenta per molti spettatori non un altrove in cui evadere consapevolmente quando si ha voglia di staccare la spina, ma, cosa ben più radicale, un prolungamento terapeutico, sempre possibile, del proprio spazio esistenziale, che serva “semplicemente” da sostegno quotidiano delle proprie azioni, coazione a ripetere delegata ad un oggetto diverso dalla nostra vita che ci assicuri che almeno in quella nostra “protesi” spazio-temporale le cose stiano avvenendo con regolarità, senza strappi, dolcemente.

In potenza qualsiasi sitcom restituisce allo spettatore un senso che forse potremmo definire di “gratitudine” per concedergli il “sempre uguale”, tanto caro a chi vive in un mondo reale in cui (intendiamoci, in modo sacrosanto) panta rei. E questo proprio grazie a quella “Sit” – su cui giustamente insiste Luca Barra (2020) – che fa orbitare le piccole storie che cambiano ad ogni episodio intorno ad un’atmosfera perenne, popolata dagli stessi volti, luoghi, stati d’animo e a cui sia verosimile poter tornare ogni volta come se non fosse cambiato nulla.

La specificità di Friends è forse il fatto che, più o meglio delle altre sitcom (anche perché è in fin dei conti la prima a farlo in modo esplicito), trasformi lo spazio fisico limitato della narrazione nella ragione di vita della narrazione stessa. Per giunta poiché tale spazio – a differenza ad esempio delle altrettanto casalinghe (ma familiari) sitcom anni ottanta – è pensato come un unico grande luogo privo di un qualsiasi elemento dividuale (e di conseguenza nessun movimento o stacco di montaggio), di cui vediamo sempre e da un unico punto di vista i due ambienti performativi dei salotti e (quasi) mai le altre stanze. La grande trovata sta in altre parole nel dare al pubblico una spazialità di carattere teatrale con contorni ben definiti e molto ridotti dentro cui esercitare la propria immaginazione, la propria voglia di ridere o piangere, di applicarsi nel seguire il dipanarsi di un evento, persino di annoiarsi.

Nella serie di Crane e Kauffman ogni dialogo, ogni desiderio, ogni pulsione, ogni rimando sono assolutamente centripeti, sfondano le quattro mura in cui si manifestano solo per il gusto di rimbalzare e tornare in un’internità che nessuno dei personaggi vuole rifuggire. Per questo le scene più indimenticabili avvengono nei due appartamenti principali e non nelle poche location a questi alternative. Per questo Phoebe, il personaggio oggettivamente più eccentrico e di conseguenza portato a scardinare la logica secondo cui tutto deve essere risucchiato entro un unico e fisso piano di immanenza, risulta alla fine il carattere più debole, quello a cui (se pur a malincuore) si potrebbe rinunciare. Per questo è l’unica delle sitcom “casalinghe” a finire con il gesto simbolico e straziante dell’abbandono delle chiavi dell’appartamento di Monica (che possiedono ovviamente anche gli altri cinque amici) sul ripiano della cucina.

A dimostrazione che Friends non si ambienta semplicemente in un luogo fisso, che abitua il pubblico a riconoscere oggetti, situazioni e gesti. Friends coincide con quel luogo. Il suo statuto ontologico si costruisce a partire dalla presenza o meno di quell’appartamento, il che vuol dire che probabilmente il protagonista maggiore della sitcom è proprio lo spazio in cui questa viene alla luce episodio dopo episodio.

Ed è precisamente questo suo coincidere – non solo materialmente ma anche emotivamente – con una ben precisa spazialità a permettere che, introiettata quella, lo spettatore sia in grado di farle posto nel proprio inconscio proiettandovi dentro i suoi desideri, le sue pulsioni, le sue paure con la sicurezza che questi si mantengano lì ben fermi e sotto chiave, sempre recuperabili, affrontabili in (o rimandabili a) qualsiasi momento della giornata e, più in generale, della vita. Di questo molti di noi credo saranno grati a Crane e Kauffmann per sempre.

Se questo oggi, nonostante i molti oggetti costruiti su un modello affine, appare scontato, di sicuro non lo era all’epoca del colpo di fortuna (o di genio) che ha portato i due autori americani a pensare in questi termini la loro storia. E in ogni caso resta il fatto che, anche a fronte di un’offerta sotto questo aspetto anche eccessivamente ricca e diversificata, Friends rimanga al primo posto a sinistra di quella sfilza di proposte e continui a vivere nelle conversazioni di tutti noi in modo pressoché invariato da trent’anni.

Non è forse esagerato ipotizzare che un oggetto del genere, in grado di sopravvivere ad evoluzioni storiche, culturali e sociali rilevanti mantenendo la medesima forza nel nostro immaginario, abbia saputo in modo così puntuale intercettare un bisogno da parte del pubblico da essere capace non tanto di continuare a parlare ad un tempo troppo diverso da quello che racconta – alcune battute già oggi fanno meno ridere, alcuni contesti tra un po’ non saranno nemmeno più comprensibili – ma di costituire in un futuro anche lontano un’ostensione schermica dello spazio emotivo dei propri spettatori dentro i confini marcati di due piccoli flats nel Greenwich Village. Persino in un tempo distopico, come il brillante finale di Don’t Look Up – che diciamocelo, credo abbia parlato a tutti noi più dell’intero film – ci ha voluto suggerire.

Sigla.

Riferimenti bibliografici
L. Barra, La sitcom. Genere, evoluzione, prospettive, Carocci, Roma 2020.

Tags     30, Friends, sitcom, spazialità
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