Al nostro sistema giudiziario.
Non è perfetto, ma è il migliore che abbiamo.
Eric Resnick in Giurato numero 2
«Il diritto è chiamato con tale nome perché deriva dalla giustizia: infatti, […] il diritto è l’arte del buono e dell’equo». Queste parole, attribuibili al giurista Ulpiano, vissuto a cavallo tra il II e il III secolo d.C., si leggono in apertura del Digesto dell’Imperatore Giustiniano, opera che riunì e sintetizzò tutto il pensiero giuridico allora conosciuto. L’equivalenza tra diritto e amministrazione della giustizia era effettivamente una caratteristica fondativa del sistema giuridico romanistico, basato su un approccio squisitamente pratico e casistico, che oggi definiremmo in termini di law in action. Un siffatto approccio, piuttosto che caratterizzare il diritto dei paesi dell’Europa continentale, considerati gli eredi della tradizione giuridica romanistica, connota soprattutto i sistemi cc.dd. di Common Law, vigenti nei Paesi anglosassoni e, soprattutto, negli Stati Uniti d’America, dove si svolge la storia alla base dell’ultima opera di Clint Eastwood, Giurato numero 2.
Prima di passare all’analisi di alcune specifiche tematiche affrontate nel film, tornando per un momento al brano di Ulpiano sopra citato, nel passaggio immediatamente successivo si legge anche che «qualcuno, meritatamente, potrebbe chiamarci sacerdoti del diritto: infatti, coltiviamo la giustizia e professiamo la conoscenza del buono e dell’equo separando l’equo dall’iniquo, discernendo il lecito dall’illecito, […]; aspirando, se non mi sbaglio, alla vera, non ad una apparente filosofia».
È su questa sottile linea di confine tra giusto e sbagliato che si muovono, in un equilibrio precario, i personaggi dell’ultimo lavoro di Eastwood, che induce a una riflessione profonda sul ruolo odierno della giustizia, che troppo spesso tende verso la colpevolezza di un innocente e viceversa. A differenza dei courtroom drama tradizionali, il protagonista non è un imputato, il suo difensore o un giudice, bensì un singolo giurato; non l’organo collettivamente inteso, come nel celebre La parola ai giurati (Lumet, 1957). Il personaggio di Nicholas Hoult percepisce più di qualsiasi altro il senso dell’ingiustizia che sta per compiersi nei confronti di un soggetto sospettato fin dal principio alla stregua della teoria lombrosiana del delinquente nato. Tuttavia, il protagonista non vuole cedere all’implacabile scure della giustizia, che gli impedirebbe di stare accanto alla moglie e alla figlia che sta per nascere e, dunque, costruire una famiglia.
Nell’assistere a questo conflitto interiore, lo spettatore conosce fin da subito la verità storica dei fatti e assiste al dipanarsi di quella processuale secondo gli strumenti tipici del diritto e, con essa, alle contraddizioni della giustizia, che nelle sue dinamiche si atteggia come una vera e propria religione laica. Da questo punto di vista, non sembra affatto casuale che il nome del pubblico ministero impersonato da Toni Collette richiami un concetto che connota l’attitudine di chi crede fermamente in un dogma: Faith. In un determinato momento del film, si legge sullo schermo uno spezzone di un suo discorso di presentazione della candidatura a procuratore distrettuale (che negli Stati Uniti viene considerata una carica politica), in cui viene richiamato il pensiero espresso da Aristotele nella Politica, per il quale la legge è ragione senza passione. Questo assunto si pone in contrasto con il comportamento da lei tenuto durante quasi tutto l’arco del processo, nel corso del quale la condanna di James Sythe viene chiesta per ottenere qualche consenso in più, piuttosto che per una convinzione di colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio.
Il dubbio, altro elemento spesso presente negli ambienti giudiziari, sovente non riesce ad essere eliminato del tutto ed è quel che accade anche in questo film. Come si giustifica questa persistente incertezza in un contesto dove si crede che sia la verità a farla da padrona? Per la giuria dei processi penali americani può applicarsi, per analogia, quanto vale per i giudici. A lungo, infatti, ci si è chiesti se un giudice, nel decidere, assomigli di più ad uno storico o ad uno scienziato. In verità, il giudice costituisce un tertium genus rispetto alle figure appena citate: rispetto allo storico, la cui attività si svolge liberamente, il giudice si muove secondo regole legali. Invece, a differenza dello scienziato, che esamina un fatto della natura riproducibile, il giudice prende in considerazione un fatto umano avvenuto nel passato e, come tale, non ripetibile.
Dalle considerazioni sopra svolte, emerge con particolare evidenza la possibilità dell’esistenza, nell’ambito processuale, di un inevitabile margine di errore, sul quale si è costruito un filone cinematografico particolarmente interessante a livello di impatto sociale: si pensi a opere come Sacco e Vanzetti (Montaldo, 1971), Girolimoni il mostro di Roma (Damiani, 1972) e Nel nome del padre (Sheridan, 1993), tutte accomunate dall’elemento del pregiudizio nei confronti di coloro che si crede essere i responsabili di crimini più o meno efferati, da consegnare in pasto ad una famelica giustizia sempre in cerca di risposte, anche se sbagliate.
Ecco, dunque, che il cinema mostra tutta la sua utilità anche per il giurista, inteso non come un semplice studioso di diritto, bensì come un acuto osservatore della società in cui vive ed opera, senza la cui conoscenza lo studio delle regole giuridiche si atteggia in termini di mero esercizio di erudizione, se non, addirittura, di inefficace e dannosa attività. Al contempo, il cinema si mostra sia come un cannocchiale, in grado di offrire uno sguardo di insieme, che come microscopio, capace di rendere visibile ciò che sfugge alla nostra percezione del mondo in cui viviamo e, più in generale, della condizione umana. Pertanto, ricorda Roselli che «se il giurista ha la necessaria sensibilità può cogliere, attraverso il cinema, quella “carnalità” del diritto […] che potrebbe altrimenti sfuggirgli: non aride norme ma regole che hanno a che fare con il vissuto delle persone in carne ed ossa» (2020, p. 28).
La centralità del ruolo e della responsabilità del giurista contemporaneo, pertanto, è legata a filo doppio ad una nuova presa di coscienza della sua funzione, fondamentale in un’epoca di transizione come la nostra, laddove l’incertezza, l’instabilità e la precarietà hanno preso il sopravvento e, di conseguenza, i tradizionali paradigmi sociali e giuridici sono ormai capovolti. Mettere continuamente in discussione il nostro concetto di giustizia non è un’idea fine a sé stessa, poiché consentirebbe di andare oltre il positivismo e la sua inadeguatezza a cogliere appieno la dimensione giuridica contemporanea, in un contesto storico in cui si va dilatando la responsabilità del giurista.
In definitiva, con riferimento a Giurato numero 2, l’operatore del diritto deve andare oltre le proprie convinzioni precostituite e muoversi come il personaggio di J.K. Simmons, che si spinge al di là delle regole nella ricerca di una giustizia veramente autentica; sembrerà fare ciò anche il pubblico ministero interpretato da Toni Collette nelle fasi finali della storia, quando ormai è troppo tardi per potere cambiare le sorti di un processo già avviatosi verso la direzione sbagliata. Spettatrice silente di questa vicenda drammatica – perché non può dirsi che il protagonista, che vivrà con il tormento morale di aver fatto una scelta errata, o la famiglia della vittima, alla quale è stato consegnato un colpevole innocente, abbiano ottenuto ciò che volevano – è la dea Temi, la cui statua campeggia nel film all’esterno del palazzo di giustizia. Divinità che, nella comune iconografia, viene raffigurata come bendata, ma che spesso, a quanto pare, sembra essere decisamente cieca.
Riferimenti bibliografici
Aristotele, Politica, BUR, Milano 2002.
P. Calamandrei, Il giudice e lo storico, in “Rivista di diritto processuale civile”, n. 16, 1939.
O. Roselli, a cura di, Cinema e diritto. La comprensione della dimensione giuridica attraverso la cinematografia, Giappichelli, Torino 2020.
P. Tonini, Manuale di procedura penale, 20° ed., Giuffrè Francis Lefebvre, Milano 2019.
G. Ziccardi, Il diritto al cinema. Cent’anni di courtroom drama e melodrammi giudiziari, Giuffrè, Milano 2010.
Giurato numero 2. Regia: Clint Eastwood; sceneggiatura: Jonathan Abrams; fotografia: Yves Bélanger; montaggio: David S. Cox e Joel Cox; interpreti: Nicholas Hoult, Toni Collette, J. K. Simmons, Chris Messina, Zoey Deutch; produttori: Dichotomy Films, Gotham Group, Malpaso Productions; origine: Stati Uniti d’America; durata: 114′; anno: 2024.