«Era in un punto buio dell’ingresso e guardava in alto verso la scala», questo è il momento in cui in The Dead, l’ultimo dei racconti di Gente di Dublino, James Joyce che fino ad allora ci aveva guidato nel party di Miss Kate e Miss Julia tra cibo, balli, musica e luoghi comuni sull’ospitalità irlandese, cambia, e da racconto ci fa entrare nella forma romanzo.

Questo avviene trasformando il personaggio in uno spettatore collocato al buio (come in un cinema), e facendo dell’oggetto guardato un’ombra, una donna non riconosciuta subito dal marito Gabriel come sua moglie: «Una donna era ferma vicino al caposcala del primo pianerottolo, e per di più nell’ombra. Non riusciva a vederne il viso ma vedeva i riquadri di color terracotta e rosa salmone della gonna che l’ombra faceva apparire bianchi e neri. Era sua moglie» (Joyce 2024, p. 303). John Huston nella bella versione cinematografica del 1987, The Dead – Gente di Dublino, toglierà il buio e l’ombra. Decenni separano il film dal racconto ideato e scritto nel 1907. Nel film di Huston la visibilità teatrale e il calore della luce degli interni si rendono dominanti sul bianco e nero cinematografico del racconto di Joyce.

Abbiamo dunque in Joyce il personaggio veggente che è catturato dalla sua posizione spettatoriale, protetta e immobile. Ed è soprattutto aspirato da ciò che vede, che vorrebbe trasfigurare simbolicamente. Gabriel vede la moglie in pose idealizzanti: «Nella sua posa c’erano grazia e mistero, come se lei fosse un simbolo di qualche cosa» (ivi, p. 303). E addirittura la immagina come soggetto di un quadro: «Se fosse stato pittore l’avrebbe dipinta in quella posa» (ibidem). Ma il processo di trasfigurazione ideale continua anche quando la coppia esce per strada all’alba, a fine festa. Gabriel vede ancora trasfigurata la moglie e si autocompiace del sentimento che prova: «Vide che aveva un po’ di colore sulle guance e le luccicavano gli occhi. Un’ondata improvvisa di gioia gli traboccò dal cuore» (ivi, p. 306).

Fino a quando, giunto nella camera d’albergo, infastidito dal “sovrappensiero” della moglie che sfuggiva al suo controllo, le chiede a che cosa stia pensando. Gretta sta pensando ad un altro, ad un amore di gioventù, un ragazzo morto troppo presto. A Gabriel a questo punto non resta che l’ironia: «Qualcuno di cui eri innamorata? chiese ironico» (ivi, p. 314).

La forma romanzo nasce con questo, con l’approdo ironico di una illusione infranta. Se – come pensa Bachtin – il romanzo si sviluppa in un rapporto stretto con la realtà, questo rapporto mette in questione la struttura dell’intreccio, del mythos, del suo dispositivo illusorio, e soprattutto del suo fondamento mitico. Per questo The Dead finisce in una sospensione, in una fine senza risoluzione, nel compimento di una esperienza scettica in cui il mondo e il soggetto si disincarnano e sfumano: «Anche la sua identità svaniva fino a passare in un mondo grigio e impalpabile: lo stesso mondo saldo in cui quei morti una volta erano stati allevati e avevano vissuto si dissolveva, disfacendosi» (ivi, p. 320).

Enrico Terrinoni, che insieme a Fabio Pedone ha molto ben curato, con forse solo troppe note di commento, la nuova edizione di Gente di Dublino per Il Saggiatore (ma le loro imprese joyciane sono andate ben oltre in questi anni, a partire dalla prima traduzione integrale di Finnegans Wake) lo sottolinea nell’introduzione, evidenziando il tratto comico-ironico del libro, come chiave per comprenderlo. E come chiave per comprendere tutta la narrativa di Joyce.

L’impossibilità di trasfigurazione ideale dell’apparenza, che diventa illusione misteriosa per chi la osserva, e dove il contingente si apre ad un passato non più mitico e impersonale, ma individuale e psicologico (un amore di gioventù), è la novità che apporta la forma romanzo ai generi letterari: «Il romanzo è la consumazione dell’apparenza in finzione tramite la dialettica del mistero» (Carchia 2024, p. 81). L’istanza ironico-parodica è il sigillo di tale forma. E Joyce ne è il massimo rappresentante. The Dead è dunque un racconto già inscritto nella forma romanzo, nella sua non conclusione, in un quotidiano ironicamente non compiuto e dispersivo. La forma affonda nella vita.

La struttura epifanica che dovrebbe rivelare nel quotidiano l’idealità di una “posa” e dunque compiere il suo trascendimento precipita in una condizione che sembra non riscattabile, nell’isolamento dei coniugi e nello sparpagliamento delle esperienze: Gretta sul letto a dormire dopo aver pianto, Gabriel alla finestra ad osservare la neve che cade.

La forma romanzo è la forma di ciò che non ce l’ha, di una vita che si disperde, che combatte sempre con uno scetticismo che l’assedia da ogni parte: «Stiamo vivendo in un’epoca di scetticismo», dice Gabriel nel suo discorso alla festa. È la forma che porta a visibilità la meanness che assedia il quotidiano, le cui sfumature di significato vanno, come suggerisce Terrinoni (ivi, p. 15), da «povertà» a «grettezza» a «piccineria» a «bassezza» a «mediocrità» a «squallore». Sono sfumature morali. Ma forse la posta in gioco non è nel giudizio morale, che risuona in qualche modo anche nella scelta di una delle «possibilità marginali» operata dai curatori, quella di tradurre al singolare il titolo, Il morto.

Forse il senso della forma romanzo a cui approda il racconto è nel tenere insieme ironicamente i frammenti di una realtà non più fondata su alcuna base mitica né religiosa; o meglio dove tale base («grazia e mistero») è presente nel suo travestimento comico-parodico. La rivelazione è banale, il trascendimento del sensibile è più banale del sensibile stesso: l’enigma del volto di donna più interessante delle ragioni che ce lo spiegano (un amore di gioventù). Ciò di cui i segni sono segni è sempre più ironicamente insignificante di quanto ci si aspetti. 

Ma questa insignificanza è ciò che ha più senso, e fa dire a Colum McCann che più che di meanness bisognerebbe parlare di meaningfulness. Le storie di Dubliners ritornano sulle nostre vite e ci costringono «to constantly evaluate our own everyday lives. What this affirms is not the “meanness” of what we encounter, but the meaningfulness» (McCann 2014, p. XIV). Questa pienezza di significato nasce dall’incontro con i lettori che fanno i conti con le loro vite a partire da una forma che rinuncia a compiersi, resta sospesa, affonda nell’indeterminatezza della vita, nel dispositivo illusorio che si costruisce e si dissolve continuamente. Tale forma porta ad espressione ciò che il lettore prova e sente senza avere le capacità di dirlo.

In Viaggio in Italia (1954) di Roberto Rossellini, la coppia di coniugi inglesi, che si chiamano non a caso Joyce, arrivando Napoli per vendere una villa ereditata scopre di essere in crisi. Katherine, la moglie (interpretata dalla Bergman), è colpita dal fatto che su quelle spiagge era morto durante lo sbarco alleato un suo amore giovanile, un delicato poeta. Il marito l’apostrofa con sarcasmo. Nel finale, la coppia sull’orlo di una crisi che sembra irreversibile, sceglie di scommettere nuovamente sul loro rapporto, dichiarandosi amore reciproco.

In Doppio sogno (Traumnovelle) di Schnitzler, pubblicato nel 1926, ma il cui primo abbozzo risale addirittura al 1907 (contemporaneo dunque a The Dead), e che Stanley Kubrick porta sullo schermo con un film magistrale come  Eyes Wide Shut del 1999, la crisi di una coppia di coniugi la cui distanza diventa via via più radicale per i desideri di tradimento reciproco alla fine si ricompone, con la moglie che dice al marito, al termine di tutto quello che hanno attraversato: «Ma ora ci siamo svegliati».

Il racconto della crisi coniugale borghese quando finisce bene è perché riattiva pienamente una struttura mitica, dove dopo la rottura dell’illusione iniziale si passa attraverso il rischio della dissoluzione per giungere, con la mediazione di un rito (la processione religiosa in Viaggio in Italia, il rito orgiastico e la maschera in Doppio sogno), alla riconciliazione finale. Stanley Cavell ha chiamato questo modello “ri-matrimonio”, riferendosi ad alcune grandi commedie cinematografiche americane.

Nulla di tutto questo accade in The Dead. Il processo è inverso. Il rito festivo iniziale determina la cornice per la nascita dell’enigma. Il finale è sospeso, la moglie dorme e il marito smarrito guarda la neve. L’integrazione è preclusa. Lo scetticismo ironico domina. L’illusione potrebbe riprendere o forse no. Il confine tra i vivi e i morti sfuma. La reintegrazione commedica della coppia, che necessiterebbe della partecipazione attiva della donna, qui non c’è. Siamo nell’isolamento del soggetto romanzesco che, smarrito nella disseminazione ironica dell’esperienza, è solo in attesa di essere raccontato più compiutamente nel grande romanzo joyciano del 1922, l’Ulisse.

Riferimenti bibliografici
G. Carchia, D’apparenza al mistero. La nascita del romanzo, Quodlibet, Macerata 2024.
C. McCann, Foreword, in J. Joyce, Dubliners, Penguin, London 2014.

James Joyce, Gente di Dublino, a cura di F. Pedone, E. Terrinoni, il Saggiatore, Milano 2024.

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