Anche chi non ha letto il Giovane Holden, ha comunque sentito parlare della storia delle anitre e del laghetto: la domanda che il protagonista si pone e pone a più riprese, nel corso del libro. Per la prima volta a un tassista di New York:
– Senta un po’, – dissi. – Sa le anitre che stanno in quello stagno vicino a Central Park South? Quel laghetto? Mi saprebbe dire per caso dove vanno le anitre quando il lago gela? Lo sa, per caso?- Mi rendevo conto che c’era soltanto una probabilità su un milione.
Lui si girò a guardarmi come se fossi matto. – Che ti salta in testa, amico? – disse. – Mi prendi per fesso?
– No, mi interessava, ecco tutto.
La questione posta nel libro di Salinger è decisamente più poetica e forse anche più sensata di quella che vorrei proporre in questo articolo. Eppure, ieri sera, mi è venuto spontaneo pensare alle anitre; cercare una possibile analogia, qualcosa come una risposta alla mia domanda in quella del giovane Holden Caulfield. In ogni caso, non ho chiesto a nessuno di rispondere al mio dubbio. Né a un tassista, né a Google.
La questione è dunque questa: dove vanno le serie televisive – quelle che ci appassionano, quelle di cui parliamo e scriviamo – tra una stagione e l’altra? Ancora meglio: dove vanno le serie quando non c’è più nessun appuntamento settimanale da attendere, quando finiscono? Che cosa succede a un oggetto narrativo che si è dispiegato nel corso di diversi anni – accompagnandoti nel tuo percorso di formazione, facendoti compagnia nelle serate di malinconia oppure convogliando la socialità durante la pausa caffè, con i compagni d’ufficio – quando la produzione e diffusione si interrompono? Non mi sto chiedendo tanto se tale conclusione suscita o meno dispiacere, ma in quale “spazio-tempo” viene a trovarsi l’oggetto in questione una volta terminato. Quali sono le modalità di accesso e di fruizione dello stesso, al di fuori della condivisione/interconnessione della visione che sembra caratterizzare l’esperienza seriale contemporanea? Che tipo di “ambiente”, che tipo di “atmosfera” spettatoriale si profila, dunque, a tali condizioni?
Queste domande vengono fuori da un’esperienza di visione tutt’ora in corso e il ragionamento che segue non può che mantenere un tono scherzoso e rapsodico, più faceto che serio.
In queste settimane di inizio 2018, sto guardando la serie culto Mad Men (dicono che così facendo si impari bene l’inglese). Mad Men ideata da Matthew Weiner e prodotta dal 2007 al 2015, per un totale di sette lunghe stagioni, novantadue episodi. All’epoca ne avevo visto solo qualcuno, qua e là, come tutti affascinato da Donald Draper, ma non sufficientemente da restare incollato per ore, settimane, anni, davanti alle vicende della Sterling & Cooper, nella New York degli anni Sessanta. A distanza di qualche anno dalla realizzazione, il fascino dei personaggi e la costruzione dell’intreccio resta invariata. I temi trattati e la qualità dello sguardo – al contempo “interno” ed “esterno” al decennio di maggiore trasformazione sociale della seconda metà del Novecento – idem. Forse, l’acceso dibattito sulle forme di “sexual harassment” degli ultimi mesi ci porta a osservare alcuni personaggi e alcune vicende della serie con un occhio diverso. Ma non è questo il punto. Al di là dei contenuti dell’opera stessa e della loro attualità o caducità in riferimento al dibattito pubblico contemporaneo, l’impressione è che guardare una serie “fuori stagione”, addirittura di qualche anno, costituisca in sé un’esperienza particolare, qualcosa di profondamente diverso dal guardarla durante la fase di produzione.
Come è stato sostenuto con efficacia in diverse ricerche e anche nelle pagine di questa rivista, la serialità televisiva di nuova generazione esprime la capacità di creare narrazioni estese: ecosistemi che si propagano oltre i limiti dell’oggetto narrativo stesso, influenzando – almeno per il periodo di durata della serie stessa – le forme di vita e suscitando a loro volta pratiche di appropriazione e riuso da parte degli spettatori.
Durante il lungo periodo di produzione e diffusione di Mad Men non era difficile riconoscere nella vita di tutti i giorni, nelle posture di amici, conoscenti o sconosciuti, improbabili e non sempre ironici atteggiamenti alla Don Draper. Restando all’Italia, sono noti e ampiamente dibattuti gli effetti di campo suscitati da serie di successo come Romanzo Criminale, prima, e Gomorra, poi: dall’apertura di locali intitolati al “Libanese” – che probabilmente hanno già cambiato nome, rincorrendo nuove mode e attualità – all’affermazione di tormentoni come “Stai senza pensieri”, fino ai timori espressi da esponenti delle istituzioni pubbliche che tanta fascinazione nei confronti del male possa suscitare fenomeni di emulazione nella “vita reale”.
Pensando alla recente conclusione della terza stagione di Gomorra, è evidente come la morte dell’“Immortale” sia avvenuta e sia stata elaborata allo stesso tempo dentro e fuori dall’oggetto-serie. Migliaia di utenti hanno commentato in diretta e in contemporanea l’episodio sui social network, come si trattasse di un evento “reale”. Lo stesso Marco D’Amore si è reso protagonista di una performance interpretativa dentro e fuori dalla serie, interagendo con gli spettatori e con i fan, nonché postando contenuti inediti e commenti sui propri profili social.
Si tratta di pratiche che toccano un picco quantitativo e qualitativo in prossimità dell’uscita della stagione o del singolo episodio e che lentamente scemano, fino a restare appannaggio di gruppi “esoterici”, come nel caso di Lostpedia.
Ma ritorniamo al “fuori stagione”, proviamo a considerare la condizione che comporta. Non si tratta di esaltarlo come una prassi snobistica, come il gusto di uno spettatore particolarmente cool che accetta sì di guardare le serie ma soltanto quando il clamore è scemato. Si tratta piuttosto di prendere atto di tale condizione di visione – che capita a tutti di sperimentare – e delle sue particolarità: la possibilità di trovarsi impegnati per giorni e settimane in un appassionato faccia a faccia con lo schermo, a distanza di anni dall’uscita dell’ultimo episodio di Romanzo Criminale (2008-2010), di Mad Men, di Breaking Bad (2008-2013), di The Wire (2002-2008) o addirittura di Lost. Per qualche motivo abbiamo deciso di guardare solo adesso una di queste serie, consapevoli che il “dibattito” è scemato. La guardiamo nella pressoché totale assenza, ormai, di commenti live su Facebook o Twitter di altri spettatori che come te stanno guardando quell’episodio o il successivo, sul filo dello spoiler. Dopo tanto rumore, dopo che tanto si è sentito parlare di quegli oggetti narrativi, quello che si produce a guardarle fuori stagione è dunque un senso di solitudine e di isolamento, ma anche una sorta di euforia della cura individuale: la visione serale come auto-somministrazione.
È questa una condizione spettatoriale che sembra almeno in parte diversa da quella della classica cinefilia come dai tentativi, fatti da chiunque, di “rimettersi in pari” guardando quei film del passato che proprio non si può non avere visto.
Se tale scarto tra cinefilia e seriefilia si dà, non è tanto dovuto ad aprioristiche differenze di qualità che intercorrono tra un film e una serie tv. Come è stato notato, da Heimat (1984-2013) di Edgar Reitz a Berlin Alexanderplatz (1980) di Rainer Werner Fassbinder, fino alle serie compiute e mancate di David Lynch, il sentiero del cinema e quello della serialità si sono del resto intrecciati più volte. Piuttosto, l’effetto del “fuori stagione” – l’esperienza del passare del tempo davanti a una serie, per settimane, quando questa è stata dichiarata conclusa da tempo – sembra essere determinato da altri fattori: in primo luogo la temporalità durativa ma pur sempre circoscritta della produzione e diffusione dell’oggetto seriale; in secondo luogo, le condizioni nuovo-mediatiche che caratterizzano la visione della serie stessa come un “evento” che ha una durata specifica e al quale è possibile prendere parte secondo modalità in buona parte inedite.
Se anche la storia del cinema è fatta di momenti di massima attenzione nei confronti di un’opera e di lunghi periodi di letargo, una certa “stagionalità” sembra caratterizzare in modo specifico la serialità, quantomeno in quest’epoca caratterizzata da una piena disponibilità dei contenuti in rete, ma anche da strategie di canalizzazione del flusso su determinati oggetti, in determinato momenti. Da tale punto di vista, è forse possibile sostenere che la temporalità della fruizione seriale non coincide con i limiti di reperibilità dell’oggetto narrativo stesso – del resto sempre disponibile in remoto – ma con la stagione della sua piena socializzabilità.
Il rapporto tra serialità, cinema e nuovi media è troppo complesso per essere trattato così rapidamente, tanto più all’interno di un articolo deliberatamente semi-serio. Meglio dunque ritornare alla domanda di partenza e al piano metaforico che ha avviato l’articolo: che cosa succede alle serie quando finiscono? E dove vanno alla fine dell’ultima stagione?
Aspettando di trovare una risposta, quella vera, è intanto possibile accontentarsi di quella che si trova nelle pagine del libro di Salinger. Una risposta, quest’ultima, che ci spinge a osservare noi stessi, i nostri gesti, individuali o collettivi, di fronte a questi oggetti narrativi che tanto ci appassionano. Ci spinge fino ai limiti di una “poetica della spettatorialità”.
Siamo nel capitolo XII del Giovane Holden quando il protagonista, imperterrito, pone di nuovo la stessa domanda, di nuovo a un tassista, questa volta ottenendo una risposta:
– Be’, sa le anitre che ci nuotano dentro? In primavera eccetera eccetera? Che per caso sa dove vanno d’inverno?
– Dove vanno chi?
– Le anitre. Lei lo sa, per caso? Voglia dire, vanno a prenderle con un camion o vattelappesca e le portano via, oppure volano via da sole, verso sud o vattelappesca?
Il vecchio Horwitz si girò tutto di un pezzo sul sedile e mi guardò. Aveva l’aria d’essere un tipo nervosetto. Non era affatto malvagio, però. – E come diavolo faccio a saperlo? – disse. – Come diavolo faccio a sapere una stupidaggine così?
– Be’, non si arrabbi per questo, – dissi. Era arrabbiato o che so io.
– E chi si arrabbia? Nessuno si arrabbia.
Io smisi subito di chiacchierare con lui, se doveva essere così maledettamente suscettibile. Ma fu lui stesso a riattaccare. Si girò tutto un’altra volta e disse: – I pesci non vanno in nessun posto. Restano dove sono, i pesci. Proprio in quel dannato lago.
Non credo che Salinger, con il suo romanzo, intendesse proporre una “teoria dei media ambientali” e, del resto, John Durham Peters, nel suo fantastico libro sul carattere mediale del mare, del fuoco e dell’aria non ha fatto alcun riferimento al Giovane Holden.
Ma forse, quando la bella stagione è finita e la superficie del lago è congelata, quello che succede è che le “anitre” diventano “pesci”. Si immergono completamente. Stanno sott’acqua, dove è possibile sopravvivere in una specie di letargo indefinito, in attesa di un sequel o di un prequel, di una metamorfosi, di una nuova primavera. Sott’acqua, dove il contatto con l’esterno è ridotto, mediato dallo schermo opaco della lastra di ghiaccio. E noi, spettatori fuori stagione, a immergerci, sparpagliati e muti, come subacquei.
Riferimenti bibliografici
C. Bisoni, V. Innocenti, G. Pescatore, Il concetto di ecosistema narrativo e i media studies: un’introduzione, in Media Mutations. Gli ecosistemi narrativi nello scenario mediale contemporaneo. Spazi, modelli, usi sociali, a cura di C. Bisoni, V. Innocenti, Mucchi, Modena 2013.
M. Coviello, I destini della comunità nella serialità contemporanea, in Fata Morgana Web 2017. Un anno di visioni, a cura di R. De Gaetano, N. Tucci, Pellegrini, Cosenza 2017.
J. Mittell, Complex TV. Teoria e tecnica dello storytelling delle serie tv, a cura di F. Guarnaccia, L. Barra, Minimum fax, Roma 2017.
J.D. Peters, The Marvelous Clouds. Towards a Philosophy of Elemental Media, Chicago University Press, Chicago and London 2015.