Di quelle “cose (mai) viste”, in trent’anni, tante si sono rese visibili. Ne è passato di cinema raro e più o meno inedito (insieme a interviste, montaggi, recuperi archeologici di trasmissioni televisive, spot e frammenti vari) o classico. Che è, in realtà, un’altra forma di inedito, un po’ secondo l’adagio calviniano per cui classico è ciò che non ha ancora finito di dire quel che ha da dire, o per l’equazione ispirata a una frase di Eliot che l’insegnante d’inglese in Bande à part di Godard  scrive alla lavagna: “Classique=Moderne”. Oppure, con Mandel’štam, si può dire che classico è ciò che ancora ha da venire. È a questo non essere canone, a questo non essere dato e finito una volta per tutte del classico, che somiglia un po’ Fuori Orario. Cose (mai) viste, trasmissione arrivata al suo trentesimo anno.

Già nel suo scorsesiano titolo – che evoca notturne, accelerate, deliranti avventure (e di nuovo: avventura è ad-ventura, a-venire) – c’è qualcosa che cristallizzazione e canone non può essere, e semmai è “fuor di sesto” rispetto al tempo. Invenzione senza futuro che sia scritto, allora, come il cinema stesso, ancora impegnato a reinventarsi, a espandersi, dislocarsi, e perciò ancora durata in fieri, da farsiFuori Orario (che inizialmente vedeva una trasmissione in studio, anarchica decostruzione di un talk show con David Riondino e Tatti Sanguineti tra gli altri, oltre allo stesso Ghezzi, inframezzata da immagini di film o altri oggetti, come i disegni che Milo Manara spediva via fax allo studio di registrazione), fu dapprima possibile nella Rai3 innovativa diretta da Angelo Guglielmi, e nata anche un po’ sotto l’esigenza di smaltimento di diritti di trasmissione di materiali accumulati per la maratona non stop (40 ore tra cinema, interviste, videoclip, “caroselli”) La magnifica ossessione (1985) per i novant’anni del cinema.

Una trasmissione che sfrangia (come il wellesiano Don Chisciotte che sfonda lo schermo con la lancia, più volte mandato in onda) il palinsesto notturno col cinema e i suoi détournements, durando fino a mattina, iniziando con la scena di un film come se rispetto al cinema ci trovassimo sempre in medias res, non potendo in fin dei conti  esserne altro che spettatori, colti di sorpresa da qualcosa che appare come all’improvviso. Troppo vicina, cioè, alla coda della trasmissione precedente o come improvvisa emersione dal buio schermico. D’altronde, «nell’oscurità avviene qualunque generazione», cinema incluso (Ghezzi 2003, p. 405).

Fuori orario, che è per altro disposta magari a slittare, ritardare rispetto alla programmazione prevista, e poi a protrarsi e a mandare, anche, per intero, titoli di coda di un film, con tutto questo mostra forse l’essere fuori orario del cinema. Ogni film è un po’ sempre “cosa (mai) vista” e ancora da vedersi, per forza, per classico o raro che sia. Vuoi perché “non ci si bagna mai due volte nello stesso film”, pur nella sigla del programma, tratta da una scena de L’Atalante di Jean Vigo, bagnandosi ogni volta Jean Dasté delle immagini di Dita Parlo con in sottofondo – fino a qualche tempo fa – Because the Night cantata da Patti Smith, e scritta da Springsteen. Oppure perché “non è il tempo a mancarci ma siamo noi che manchiamo al tempo” in cui pure viviamo e quasi non ce ne accorgiamo, allo stesso modo che inevitabilmente non vediamo le singolarità dei frames di cui ogni film è fatto e che ci sfuggono. Tutte intuizioni (ripescate dalla memoria personale di chi scrive) che Enrico Ghezzi ha disseminato introducendo o punteggiando le nottate di cinema in tv con interventi spesso fuori-sync/fuori orario/fuor di sesto, in cui oltre a decostruirsi automatismi e integrità della comunicazione televisiva, si manifestavano non solo un “parlare di cinema”, quanto, forse, un possibile modo, poetico, folgorante, di parlare cinematograficamente.

E un pensare cinematograficamente il programma, poi, accomuna coloro che negli anni ne sono stati autori, collaboratori, curatori – Di Pace, Esposito, Turigliatto, Fumarola, Francia Di Celle, Giorgini, Melani, Marabello, Grmek Germani… – e già si coglie nei montaggi frapposti ai film mandati in onda o nel modo in cui questi si associano e si succedono nelle “notti”. In cui si costruiscono (o decostruiscono) benjaminiane costellazioni di cinema, punti di riferimento al cinefilo o più esatti modi di smarrirsi, dove possono darsi legami tra immagini diverse e tra loro lontane, scoprendone invece l’intima simultaneità e reciproco contenersi.

E perciò, in una nottata sull’amore, potevano vedersi nella stessa costellazione un Wakamatsu, un Kieslowski, un Zurlini e un Olmi; Anno Uno di Rossellini si vedeva insieme a un montaggio di materiali su Moro e La tragedia di un uomo ridicolo di Bertolucci; o un musical di Donen ne precede un altro di Aleksandrov. O ancora, tra il Van Gogh di Pialat e quello di Minnelli (Brama di vivere, 1956) poteva inserirsi quello di Scorsese-Kurosawa (Sogni, 1990) o l’intervista in cui Zavattini alla cinepresa di Emmer parla del suo amore per il Campo di grano con volo di corvi. La Terra che per Pasolini è vista dalla luna (1966) può associarsi a quella in trance (1967) di Glauber Rocha, il museo di Une visite au Louvre di Straub e Huillet (2004) a quello di Arca russa (2002) di Sokurov e poi, di lui, mandare in onda tutte le Elegie, o tutto Cottafavi, Schifano, tutto Ozu, le Histoire(s) di Godard e le fluvialità de I bambini di Golzow (1961-2007), o quelle di Lav Diaz, e l’Abecedario e le lezioni a Vincennes di Gilles Deleuze, il capolavoro ritenuto perduto di Orson Welles Too Much Johnson (1938), identificato da Ciro Giorgini…

Nei montaggi che, nel corso degli anni, s’inserivano tra un film e l’altro o in testa o in coda, ha poi più volte fatto la sua comparsa la scena di Europa ’51 in cui Irene (Ingrid Bergman), nella casa di cura in cui sarà poi internata, è prima colpita dai lampi di luce di un proiettore intermittente e poi sottoposta al test di Rorscharch. A quelle macchie, la protagonista rifiuta di dare nomi perché “non lo so”, dice, “potrebbero essere tutto, niente, non lo so…”. La stessa rosselliniana inquietudine, il non poter fissarsi del cinema in un solo frame definitivo e dato una volta per tutte (e d’altronde, Ghezzi ha spesso citato/parafrasato una frase di Henri Langlois secondo il quale la sua Cinémathèque possedeva uno schermo grande proprio per accogliere le immagini di Rossellini, tanto queste erano internamente dinamiche, fuggenti, tutt’altro che “levigate” e definitive nella forma), pena il dissolvimento del suo durare, dice l’andar fuori del cinema.

Fuori Orario dove le più di mille e una notte cinematograficamente pensate raccontano, come Shahrazad, più “cinemi”, smarginando il palinsesto, rossellinianamente non fissandosi, facendone perdere i centri consueti, continua ad acuire la nostra visione periferica, che è appunto quella che si attiva al buio, di fronte a oscuri oggetti di desiderio cinefilo, ancora come Dasté che (non) vede Parlo nel film di Vigo, che ci trova dislocati e colti di sorpresa da questa cosa che è il cinema. Continua a dare da pensare cinematograficamente, a dire, quale che sia la sua età, o il suo non scritto futuro di classico a venire, col titolo del film di un Resnais novantenne, Voi non avete ancora visto niente.

Riferimenti bibliografici
E. Ghezzi, Paura e desiderio. Cose (mai) viste 1974-2001, Bompiani, Milano 2003. 

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