Gilles Deleuze nel suo saggio La piega ci dice che il dentro è una piega del fuori. Che esiste solo il fuori, che non facciamo che piegare e dispiegare. Mario Martone nel suo ultimo gran bel film, Fuori, si colloca in questa ispirazione radicalmente moderna, in cui risuona non solo la forma espressiva della Nouvelle Vague, ma in modo più radicale un pensiero, soprattutto di matrice francese, dove è in gioco una idea diversa – non strutturata – dell’identità. E non è un caso che per accedere a tale idea, Martone usi Goliarda Sapienza, un’autrice – come ci ricorda anche il film nelle didascalie finali – il cui successo, con il suo grande romanzo L’arte della gioia, parte proprio dalla Francia.
Chi sono io? Che cosa è una identità? E chi è Goliarda Sapienza? Scrittrice e ladra? Attratta dagli uomini e dalle donne? Borghese e popolare?
La grande intuizione del film è sottrarre Goliarda Sapienza alla possibilità stessa di identificarne l’identità, non solo cogliendone un momento specifico della vita (la sua reclusione e la sua fuoriuscita da Rebibbia), escludendo dunque ogni prospettiva biografica, o anche solo estesa ad un arco cronologico ampio (come è stato per il Leopardi de Il giovane favoloso), ma facendo qualcosa di più, facendo dell’“uno” l’effetto della relazione di un “tre”. Vicino a Goliarda (Valeria Golino), ci sono Roberta (Matilda De Angelis) e Barbara (Elodie). E la loro relazione ci viene restituita mescolando passato e presente, essendo il futuro per le tre amiche, conosciutesi in cella, una nebulosa.
Il regime identitario viene minato fin dalla cancellazione, o dalla resa sfumata, delle ragioni per cui le tre amiche sono in galera (ad eccezione naturalmente di Goliarda, che sappiamo essere lì per aver rubato gioielli a casa di un’amica a Parioli).
La collocazione dei personaggi in un regime di indeterminatezza psicologica e sociale è la precondizione per sottrarli ad ogni possibile definizione.
La vita è l’insieme di effetti che la definiscono, non delle cause che li determinano e che in definitiva non contano; perlomeno non contano dal punto di vista dell’espressione della vita stessa. Sono gli effetti di superficie piuttosto che le cause profonde ad essere rilevanti ed interessanti.
La logica causale è minata nel film anche dalla messa in questione della linearità narrativa: non si va dal prima al dopo, dal dentro del carcere al fuori del mondo, ma c’è un movimento reversibile (che il montaggio di Jacopo Quadri ben compone) per cui si va anche dal dopo al prima. Non si tratta di una reversibilità puramente meccanica per mascherare la riproposizione di una logica causale. Niente di tutto questo. Se da fuori si torna dentro, è perché tra il dentro e il fuori c’è un rapporto stretto, di effettiva reversibilità: il dentro può assumere le possibilità del fuori, a partire dagli incontri che si fanno, e il fuori può chiudersi inesorabilmente e diventare il dentro più soffocante.
Ma da cosa è veramente animato questo fuori? In cui le tre amiche si trovano, si incontrano, si cercano ma anche si allontanano? Questo fuori – e qui un’altra scelta felice del film – non ha vera consistenza, non è un fuori pieno, ma è un fuori composto da singolarità, da incontri frammentari, mai organici, da scarti, da vicinanze e sensibilità, da attrazioni che restano sulla pelle, negli abbracci, nelle pulsioni trattenute, nei desideri infiniti e indefiniti. Un fuori composto da erranze in contesti urbani che non si fanno mai ambienti, da differenze di età, da giochi sensuali che non si fanno sessuali, come nella doccia che fanno insieme le tre amiche (in un avvicinamento dei corpi che ce le restituisce quasi come tre Grazie), da tracce di qualcosa che non vediamo mai accadere sotto i nostri occhi (ci vengono mostrati solo i buchi delle siringhe di eroina sulle braccia di Roberta). Nessuna concessione allo scabroso e al pruriginoso. Il rischio poteva essere alto. Ma vanno prima dissolti i cliché per poter generare il nuovo.
E gli interni nel film, che sono i veri spazi abitati da Goliarda, come il suo appartamento a Parioli, sono lì ad esprimerci questo divenire intensivo che caratterizza i personaggi, e che passa dalla molecolarità dei loro incontri, che la macchina da presa ci restituisce con una prossimità di sguardo (con la notevole direzione della fotografia di Paolo Camera), o attraverso le magnifiche performance delle tre attrici, che prendendo la scena catalizzano ogni attenzione.
Essere donna – direbbe ancora Deleuze – è una questione di divenire e non di identità, di forze (piccole o grandi esse siano) e non di forme, di processi e non di stati, di posture e sguardi anomali e sghembi e non di forme illusorie ed armoniche, di intervalli e non di continuità, di precipitazioni e stasi e non di regolarità.
L’unico momento in cui nel film la composizione si percepisce nella sua operazione configurante e idealizzante è quando entra in gioco l’uomo, Angelo Pellegrino, il secondo marito di Goliarda. Moglie e marito si baciano, la macchina da presa esce dalla finestra e la coppia è incorniciata dallo stipite, diventando oggetto controllato di una sovra-inquadratura.
Fuori è un film magnifico, proprio perché non è in nessun modo un film biografico, un film su Goliarda Sapienza. È un film su quanto ognuno di noi, uomo o donna, porta con sé, e dunque può usare, di Goliarda Sapienza per accedere a quel “fuori”, a quella libertà che si genera nello spazio aleatorio e imprevedibile, non garantito, degli incontri “orizzontali”, disidentificanti (privilegio del femminile).
Il fuori non è già dato, va sempre nuovamente raggiunto attraverso processi di divenire, per cui l’altro non è semplicemente identità distinta con cui avere un rapporto, ma l’occasione unica ed insostituibile di attivazione di tale divenire, di costruzione di una zona intensiva e molecolare, per cui ci scopriamo noi stessi, uscendo dal nostro dentro per accedere al fuori, o, il che è lo stesso, flettendo il fuori per ritrovare il nostro dentro.
E se Roberta alla fine del film non si trova più in stazione, non importa. Non ci chiediamo più di tanto dove sia andata, né ci occupiamo del destino di Barbara, e neanche tutto sommato di quello di Goliarda (la presenza di tutti i personaggi ha in fondo un che di fantasmatico).
Il film ha costruito attraverso il lavoro sulla forma quel processo di liberazione della vita, che si genera oltre i meccanismi di identificazione psico-sociale dei personaggi, e anche oltre i modi di rappresentazione mimetica e di codificazione dei generi (viene espunta ogni traccia di melodramma, che sarebbe stata inevitabile calcando sul carattere simbiotico dei rapporti).
In Fuori, su soggetto di Ippolita di Majo, Mario Martone giunge ad una libertà mai raggiunta prima, ad una forma mai così pienamente moderna e romanzesca (rifrangendo la scrittura di Goliarda Sapienza); arriva ad una lettura del femminile tanto originale quanto espunta da sovrastrutture ideologiche. In definitiva, si fa pienamente erede della modernità cinematografica, a partire dal suo amato Rossellini.
Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, La piega, Einaudi, Torino 2004.
Fuori. Regia: Mario Martone; soggetto: dal romanzo L’università di Rebibbia di Goliarda Sapienza; sceneggiatura: Mario Martone, Ippolita Di Majo; fotografia: Paolo Carnera; montaggio: Jacopo Quadri; musiche: Valerio Vigliar; interpreti: Valeria Golino, Matilda De Angelis, Elodie, Corrado Fortuna, Stefano Dionisi, Antonio Gerardi, Francesco Gheghi, Daphne Scoccia; produzione: Rai Cinema, Indigo Film, The Apartment, SRAB Films. Fremantle Media, Le Pacte, Ministero della Cultura, Regione Lazio; distribuzione: 01 Distribution; origine: Italia, Francia; durata: 117′; anno: 2025.