Francis Bacon: Man and Beast è il titolo di una grande mostra in corso a Londra alla Royal Academy of Arts sulla presenza dell’animalità nella pittura di Francis Bacon. La scelta del titolo, in realtà, non è del tutto riuscita, perché sembra riprendere in modo acritico il classico dualismo metafisico fra l’umano (non a caso denotato dal nome “Man”, l’Uomo, usato come sineddoche dell’intero genere umano) e l’animale, anch’esso denotato in un modo altrettanto “antico”, la Bestia, che infatti è la denominazione tradizionale del vivente privo di ragione (il bruto). La tradizione filosofica e religiosa a cui apparteniamo, infatti, ha da sempre distinto e contrapposto l’essere umano e l’animale. La stessa immagine che compare nella copertina del catalogo della mostra, la scena di una corrida, potrebbe sembrare una conferma di questa impressione: che cos’è la corrida, infatti, se non un impari duello fra un umano armato di spada e un animale non umano disarmato che non può non finire con la morte di quest’ultimo? Al contrario, e basta osservare proprio questa stessa immagine, il toro e il torero sono avvolti in un unico movimento allo stesso tempo terribile e vitale. Bacon non mette in scena nessun dualismo. In questo dipinto non c’è né una vittima innocente da una parte né un persecutore malvagio dall’altra; un dipinto che come spesso accade nella pittura di Bacon è tanto più efficace e dinamico quanto più è chiuso in una cornice immobile e senza tempo. Si tratta, in effetti, di vedere quello che Bacon ci offre allo sguardo, proprio come succede sul banco di una macelleria che espone la carne animale in vendita, e non di vedere quello che sappiamo o crediamo di sapere della corrida; lo stesso Bacon, in una delle celebri interviste con David Sylvester, osserva che «nel momento in cui si elabora la storia, in quel momento comincia la noia: la storia parla a voce più alta della pittura» (Sylvester 2019, p. 23). La “noia” del vedere quello che già si sa che vedremo, e che quindi non potrà più sorprenderci e colpirci. Mentre, come Bacon ha precisato molte volte, la sua pittura non è mai stata mossa da «nessun tipo di intento illustrativo».

Il tema dell’animalità, però, è diventato un tema scottante, perché per il contemporaneo senso comune animalista – e più in generale per il crescente conformismo visivo che chiede anche all’arte di essere edificante e di stare sempre dalla parte giusta – non si possono rappresentare degli animali, per di più spesso morti e squartati, senza l’intenzione di criticare la posizione antropocentrica e la crudeltà degli esseri umani nei confronti di viventi senzienti e innocenti, senza appunto alcun intento “morale”. La prima evidenza sensibile di questi quadri, al contrario, è che Francis Bacon ci mostra animali ed esseri umani senza alcun moralismo: Bacon non giudica né condanna nessuno, mostra la vibratile consistenza della carne, o meglio ancora, mostra una pura materia vivente che non si stanca di riprendere nelle sue ininterrotte trasformazioni e metamorfosi. È questo, in effetti, che appare in tutti i lavori esposti nella mostra: non la (tradizionale e scontata) contrapposizione fra animali e umani, e tantomeno fra la violenza dei primi e la sofferenza dei secondi, quanto piuttosto l’evidenza insuperabile della materia vivente, una materia che ci unisce tutti in un’unica sostanza. Come ha ben mostrato Emanuele Dattilo in un libro in cui ricostruisce la storia travisata del panteismo, infatti, «non esistono piante, animali o uomini, ma esiste una sola potenza della materia – la vita – che diventa pianta, animale o uomo» (Dattilo 2021, p. 328).

Ecco, Francis Bacon riesce a rendere su una tela proprio il senso di quest’unica potenza della materia. Una materia originaria e vitale che è al di qua delle nostre contrapposizioni e, in particolare, del dualismo fra l’umano e il non umano, appunto fra l’uomo e la bestia. In questo senso mentre il titolo Man and Beast lascia ancora pensare alla riproposizione di un antico e impensato dualismo (una tentazione dualistica che, in effetti, ricorre più volte nei testi del catalogo, in cui ricorrono troppo spesso parole come “istinto”, “carne”, “massacro”), forse il senso di questa mostra sta nella congiunzione che allo stesso tempo unisce e distingue i termini della relazione. Quella che troviamo nella pittura di Bacon, come scrive Deleuze, «non è mai combinazione di forme, è piuttosto il fatto comune: il fatto comune all’uomo e all’animale» (Deleuze 1995, p. 52). E qual è il “fatto comune” a tutti i viventi, ma non solo ai viventi, anche a tutte le cose, se non appunto il fatto che sono tutti momenti, fasi, eventi di un’unica materia che è sempre sul punto di trasformarsi e diventare altro rispetto alla forma che aveva assunto un attimo prima? Intesi in questo modo i quadri di Francis Bacon sono un’interrotta serie di tentativi di rendere visivamente dei momenti di passaggio di quest’unico movimento vitale, di quest’unica materia in perenne trasformazione, come succede nelle fotografie di Eadweard Muybridge che tanto hanno influenzato il suo modo di praticare la pittura.

In effetti non è necessaria una particolare competenza nella storia della fotografia per cogliere, in questa sequenza di scatti ravvicinati, una tensione fortissima – in realtà insopportabile – fra lo slancio dei cervi che corrono via e la fissità mortifera della cornice rettangolare che invece li immobilizza in una posa così innaturale. Si tratta, anche in questo caso, di non cadere nel dualismo, e cogliere, invece, quel “fatto comune” che tiene insieme il movimento e la stasi, la figura e la cornice, l’occhio del fotografo (che, come sappiamo, è lo stesso occhio del cacciatore che sta per premere il grilletto del fucile) e l’animale che scappa: «Il compito della pittura – scrive infatti Deleuze – si definisce come il tentativo di rendere visibili quelle forze che non lo sono» (ivi, p. 117). Cos’è che non è possibile vedere? Proprio l’invisibile punto di articolazione in cui la forma cambia in un’altra forma, il momento, cioè, in cui avviene una vibrazione della materia vivente. Siccome il nostro sguardo, invece, è lo sguardo di un vivente che non può non fissare il movimento della vita in un nome o in un’immagine, allora è costitutivamente incapace di cogliere il momento impensabile del passaggio fra le forme. Tuttavia, si tratta di un momento che propriamente non esiste, perché la potenza della materia è continua, senza interruzioni.

Francis Bacon prova così a farci vedere quello che la metafisica che pensa al nostro posto ci impedisce di vedere, la continuità mobile della vita. Ecco perché la pittura, per Bacon, «vive per conto suo»; in questo modo «l’artista riesce ad aprire, o piuttosto dovrei dire, sblocca le valvole del sentimento e quindi riporta l’osservatore in modo più violento alla vita» (Sylvester 2019, p. 17). In questo senso la presenza degli animali nei suoi quadri non è tematica, come se si trattasse della raffigurazione di certe particolare di scimmie o cani; gli animali, come gli umani o le mostruose figure che tante volte ci turbano nei suoi quadri, non sono mai raffigurazioni visive di certi particolari oggetti, quanto piuttosto momenti di un’unica ininterrotta ondulazione materica. In questo senso non esiste alcuna contrapposizione fra l’uomo e l’animale, non più di quanto possa esistere, nella sua pittura, un dualismo fra l’uomo e la cosa o, più in generale, fra il vivente e il non vivente. Per questa stessa ragione nella pittura di Bacon ricorre così spesso il doppio dispositivo visivo della gabbia o dello schema che contiene una figura al suo interno, lo stesso dispositivo messo in opera nell’immagine della corrida.

Si tratta appunto di un dispositivo, non della rappresentazione di una gabbia o di una prigione (tantomeno del dualismo Man and Beast). Ancora una volta, come Bacon non si stanca di ricordarci, si tratta di lasciare libera di muoversi l’intrinseca potenza della materia visiva. In questo senso il dispositivo, cioè la tensione fra lo schema e la figura, apre sempre una via di fuga. In effetti la materia, proprio perché non è materiale (cioè non è inerte), quanto piuttosto è intrinsecamente vitale, trova sempre un modo per colare via dalla forma irrigidita che vorrebbe invece immobilizzarla. Francis Bacon riesce così a rendere sensibile – anche al prezzo di costringerci ad una visione intollerabile – la fluidità vivente della materia al di qua dei nostri tentativi di rinchiuderla in uno schema prefissato, in un’unica figurazione, che sia “uomo”, “sesso”, o appunto “animale”. Per questo motivo, infine, il toro riesce a fuggire via dalla sua stessa raffigurazione. Come scrive Deleuze: «È come dire che, quale che sia la sua importanza, il divenire animale è solo una tappa nel cammino di un più profondo divenire impercettibile, dove la Figura svanisce» (Deleuze 1995, p. 69).

Riferimenti bibliografici
E. Dattilo, Il dio sensibile. Saggio sul panteismo, Neri Pozza, Milano 2021.
G. Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, Quodlibet, Macerata 1995.
D. Sylvester, Interviews with Francis Bacon, Thames and Hudson, London 2019.

*In apertura e in copertina Portrait of George Dyer Crouching (1966).
*Nel titolo una citazione da Interviews with Francis Bacon, p. 94.

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