Apocalittica e femminista

di GIULIA SIMI

Fran Lebowitz: una vita a New York di Martin Scorsese.

Fran-Lebowitz

“A New York ci sono milioni di persone ma l’unica che guarda dove mette i piedi sono io”. Comincia così, in un vortice di caustiche tirate contro la folla metropolitana, Pretend it’s a city (2021), mini serie documentaria che Martin Scorsese dedica a Fran Lebowitz, scrittrice e attrice, amica decennale già omaggiata nel 2010 con il documentario Public Speaking. Icona di un umorismo cinico e irriverente, attiva nel movimento LGBTQ fin dalle origini – ma, precisa, “non sono mai stata un’attivista. Non sono abbastanza altruista per esserlo” – sostenitrice del movimento #metoo – “Può darsi che qualcuna menta, ma siamo state tutte giovani donne e sappiamo cosa significa. Il mio istinto è quello di credere a ogni donna” – Lebowitz si è guadagnata da vivere facendo i lavori più disparati, dalla tassista alla cleaner fino alla venditrice ambulante di cinture.

Inizia a scrivere dalle colonne di Interview, storica rivista fondata da Andy Warhol e Gerard Malanga, dove da principio scrive solo recensioni di bad movies in una rubrica che intitola Best of the Worst. Il successo arriva con la pubblicazione di Metropolitan Life (1978) e Social Studies (1981), raccolte di articoli e brevi saggi dove mischia con sapienza e irriverenza osservazione antropologica e narrazione privata. In questa conversazione, che il rapporto confidenziale con Scorsese scioglie nei toni intimi di una confessione, le parole di Lebowitz si espandono in visioni d’archivio che appaiono come una cartografia visuale del Novecento: alle citazioni di film amati dal regista – da Il gattopardo (1963) di Visconti a Nuovomondo (2006) di Crialese – si aggiungono frammenti di trasmissioni televisive e pubblicità degli anni cinquanta e sessanta, dove la narrazione dell’American Way of Life emerge in tutta la sua grammatica celebrativa.

Apprendiamo così che Fran Lebowitz non sopporta lo sport ma ama Muhammad Ali – e in ogni caso, “se le donne governassero il mondo, il salto della corda sarebbe uno sport olimpico” –, scrive ancora con carta e penna, non ha uno smartphone e non usa internet – “non ho Twitter e Instagram non perché non so cosa siano, ma perché so perfettamente cosa sono” –, pensa che il Chrysler Building sia la dimensione perfetta per l’abitazione di una singola persona, adora guardare i film ma raramente va al cinema – “non sopporto i miei simili” –, indossa degli splendidi gemelli disegnati dallo scultore Alexander Calder ma alla domanda su quale tra le arti versa in condizioni peggiori nel nostro presente risponde senza indugi: “le arti visive”. Una truffa. “It’s a racket”, commenta Scorsese. It’s a racket, gli fa eco Lebowitz, prima di addentrarsi in un’esilarante descrizione delle performance spettacolari delle aste dove, nota in istrionica meraviglia, si applaude all’atto dell’acquisto e non alla visione dell’opera: “Entra in scena un Picasso: silenzio tombale. Il martello batte per decretare l’acquisto: applauso. Viviamo in un mondo in cui si applaude al prezzo e non a Picasso. E ho detto tutto”.

D’altra parte, ci ricorda in modo esplicito più avanti, “I hate money but I love things”. Questione spinosa, quella del denaro e degli oggetti, dove si annida senza appello la contraddizione della modernità – “d’altra parte se non mi piacessero né i soldi né gli oggetti sarei il Dalai Lama” – e dove tuttavia fioriscono le forme di un dandismo che Lebowitz, in controtempo con il proprio presente – “vivo ancora nel modo in cui vivevo negli anni settanta” – indossa con la misura di un abito sartoriale. Corpo, gesto, voce, abiti e parole non sono scindibili in Fran Lebowitz, che in una sorta di performance del quotidiano evoca Oscar Wilde alla precisa ricerca di una genealogia della soggettività queer e dandy: dal taglio di capelli che scendono simmetrici e ondulati appena sotto le orecchie, al colletto e ai polsini della camicia, che spuntano, grandi e squadrati, oltre la giacca dal taglio maschile.

Il suo è lo snobismo di un’eroina tragica del capitalismo iperbolico della finanza e dell’iperconnessione, fatto di solitudine e reiterato attrito con il mondo – “I’m in a constant state of rage”. La metratura sconfinata del suo appartamento, comprato al triplo delle sue possibilità, rifugge le feste ma adempie al compito di ospitare i suoi 10.000 libri, ciò che resta di una perduta materialità dell’oggetto, e di soddisfare un desiderio per il bello che lei stessa definisce “così intenso che, per quanto avverta una grande preoccupazione per ciò che ho fatto [l’acquisto della casa a prezzo esorbitante, ndr] la felicità supera di gran lunga la preoccupazione”.

In questo elogio dell’inutile e del superfluo, nelle parole pronunciate da Lebowitz con il tono e il ritmo di una comicità costruita su una parola saldamente cesellata nella scrittura, sembrano risuonare quelle con cui Giorgio Agamben descrive il ruolo del dandy negli anni di affermazione del capitalismo:

A uomini che avevano perso la disinvoltura, il dandy, che fa dell’eleganza e del superfluo la sua ragione di vita, insegna la possibilità di un nuovo rapporto con le cose, che va al di là tanto del godimento del valore d’uso che dell’accumulazione del valore di scambio. Egli è il redentore delle cose, colui che cancella, con la sua eleganza, il loro peccato originale: la merce (Agamben 1977, p. 56).

E tuttavia è sempre il dandy a riportarci a quella relazione economica con gli oggetti tutta pre-moderna in cui, ancora nelle parole di Agamben, «l’uomo arcaico sembra dominato in ogni sua azione da qualcosa che, sia pure forse con qualche esagerazione, è stato possibile definire come principio della perdita e della spesa improduttiva» (ivi, p. 57).

Ecco perché la quarta puntata della serie, che fin dal titolo, Board of Estimate, gioca sul filo sottile del termine “estimate”in bilico tra il valore misurabile dei soldi e quello immisurabile del godimento estetico, è una confessione, autoironica e spietata, di quella disarmonia con la società del presente che la porta ad affermare: “Nessuno a New York può vantare un record di pessime decisioni immobiliari come me. Ne ho fatto un business. Lebowitz: compro a tanto vendo a poco. E se nella contrazione del debito confessa, ma le note sembrano quelle di un narratore inattendibile, di essersi sentita molto americana – “sento di aver raggiunto un’armonia con i miei concittadini in quei debiti psicopatici senza motivo” – il suo felice insuccesso nell’ingranaggio del guadagno la rigetta immediatamente nel gesto disarmonico della dépense, che tuttavia appare irrorato dalla luce di una vitalità insepolta.

Forse, tra una risata e un’altra che scandisce i commenti appuntiti di Lebowitz, potrebbero risuonare anche le parole di Elémire Zolla, lucido apocalittico della modernità, che già nel 1959, in Eclissi di un intellettuale, delineava la figura del giocatore come nuovo archetipo del contemporaneo. Eppure:

Talvolta ci si trova fuori da situazioni di gioco: quando si incontra una persona viva, quando si assiste a uno spettacolo bello, quando si attende ad un’opera personale. […] Fra una giocata e l’altra si può scordare il gioco; non rinunciare ad esso, poiché chi non gioca viene eliminato dalla vita. Gli intervalli che vi possono essere saranno chiamati intermittenze del cuore, epifanie dell’oggetto, rapporti sovrannaturali, feste del narrare o del vedere. Così il sacro sopravviverà accanto al profano. L’arte e la vita si salvano assieme se non cadono insieme nella morte vivente (Zolla 1959, p. 104).

La serie è dedicata a Toni Morrison, amica “amatissima” di Lebowitz scomparsa nel 2019. Nel vederle conversare sul palco della New York Public Library, in una preziosa registrazione del 2009, forse possiamo sentire il battito di quelle “intermittenze del cuore” con cui metterci in salvo.

Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nel mondo occidentale, Einaudi, Torino 1977.
G. Bataille, La Part maudite. Précédé de La notion de dépense, Les Éditions de Minuit, Paris 1967.
F. Lebowitz, Metropolitan Life, Dutton, New York 1978.
Ead., Social Studies, Random House, New York 1981.
T. Morrison, Beloved, Random House, New York 1987.
E. Zolla, Eclissi dell’intellettuale, Bompiani, Milano 1959.

Fran Lebowitz: una vita a New York. Ideatore: Martin Scorsese; regia: Martin Scorsese; interpreti: Fran Lebowitz, Martin Scorsese; produzione: Netflix; distribuzione: Netflix; origine: USA; anno: 2021.

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