Si tratta di una nuova “scena” nello smisurato affresco della società statunitense che Frederick Wiseman va componendo da ormai mezzo secolo (il suo sconvolgente film d’esordio, Titicut Follies, data 1967). Ex Libris – The New York Public Library (2017) segue il metodo analitico che Wiseman ha lungamente sperimentato e affinato negli anni, e che i suoi spettatori hanno imparato a riconoscere: un lavoro scrupoloso di auscultazione dei frammenti (e di ascolto dei soggetti) di una realtà singolare, che viene ricomposta pezzo per pezzo sotto i nostri occhi, per esserci infine restituita nella materialità e nella totalità dei processi che l’attraversano.
Sottolinearlo sembra tanto più opportuno nel caso di un film come questo, che abbonda di dichiarazioni programmatiche ed in cui la questione del metodo si trova messa a tema con una frequenza perlomeno insolita.
Oggetto della ricognizione, stavolta, è una delle istituzioni culturali più importanti e prestigiose degli Stati Uniti, la Biblioteca Pubblica di New York. Siamo condotti così per i suoi diversi istituti e dipartimenti, disseminati in tre quartieri della città. Ma le facciate e gli atrii monumentali, le sale di lettura, gli archivi, i centri per la ricerca, gli uffici in cui si svolgono le lunghe riunioni dell’amministrazione, gli auditorium che ospitano conferenze, incontri con poeti e musicisti, concerti e presentazioni di libri, costituiscono solo una parte del quadro. Incontriamo anche situazioni che non ci aspetteremmo: aule destinate al doposcuola per i bambini, succursali per i ciechi e i sordomuti, un istituto come lo Schomburg in cui si studia la cultura nera, fiere del lavoro in cui i disoccupati hanno l’opportunità di incontrare rappresentanti di aziende pubbliche e private.
Ne viene fuori il ritratto di un’istituzione che è tutt’altro che un mero “deposito di libri” (com’è detto nel film), e che semmai giunge a configurarsi come un formidabile dispositivo di inclusione della cittadinanza nell’elaborazione di forme di pensiero critico e di politiche di intervento nella società (è in tal senso, come ha scritto Pietro Bianchi, che la New York Public Library va intesa come un polo di democrazia). In ogni caso, sotto lo sguardo di Wiseman essa cessa ben presto di essere un semplice luogo fisico o un edificio (un insieme di edifici: le 92 sedi distribuite fra Manhattan, Bronx e Staten Island): tende piuttosto a perdere i propri connotati architettonici materiali (o a lasciar loro, per meglio dire, un’esistenza quasi solo ottica), per darsi come punto d’incrocio e di scambio di processi e flussi molteplici. Poiché essa stessa mira a “dissolversi” nel tessuto urbano, captando le esigenze e i bisogni dei suoi abitanti, e calibrando apposite strategie di risposta. La dialettica di interni ed esterni, che è una delle principali cifre compositive del film, attesta questa condizione di apertura: si va dagli uni agli altri, incessantemente, dalle sale e dagli uffici delle singole sedi alle strade ed ai quartieri che le circondano, e viceversa (e lo scambio si articola ogni volta su progressioni di immagini fisse, che quasi sempre, non a caso, sono vedute di luoghi di passaggio: corridoi, scalinate, arterie urbane).
La Biblioteca non è dunque un luogo chiuso, ma una struttura porosa, permeabile. E non solo nello spazio. Quel che infatti emerge, scena dopo scena – in modi sottili e tuttavia inequivocabili –, è il multiforme passato della nazione americana, costellato di nodi irrisolti e di contraddizioni, che si ripercuotono sul presente. Le sue tracce emergono un po’ dappertutto: nelle pagine dei quotidiani dell’Ottocento che gli utenti possono consultare in forma digitalizzata come nella Dichiarazione di Indipendenza tradotta nel linguaggio dei segni a beneficio dei non udenti, nelle parole di un attore che registra un audiolibro come nella discussione (allo Schomburg) intorno a un manuale di geografia zeppo di falsificazioni sulla tratta degli africani. I richiami al passato schiavista degli USA punteggiano il film, prolungandosi in quelli alla lotta dei neri per i diritti civili e, inevitabilmente – anche se solo nella mente dello spettatore: un livello che al cinema non può certo chiamarsi immaginario –, nei più recenti episodi di tensione razziale.
Con gesto allusivo, Wiseman sembra suggerire che queste narrazioni conducano tutte all’oggi, e che nell’oggi esse trovino un punto d’arrivo (seppur provvisorio) e un’istanza di verifica. Come se la Storia fosse un filo di cui teniamo un capo. Il punto è che la veicolazione di frammenti del passato non cessa di interrogare le immagini del presente attuale del film, lasciando trapelare un possibile legame. Qualcosa, di esso, le concerne. L’interrogazione s’incardina qui su un assetto discorsivo caratterizzato da un estremo nitore: come sempre in Wiseman, sono il visivo e il sonoro, la parola e l’immagine, a ripartirsi i ruoli. Che se ne dia un’evocazione fulminea (ad esempio nell’insegna di una strada che reca il nome di Lincoln o di Malcolm X) o, come più spesso accade, che sia resa oggetto di un vero e proprio racconto (ad esempio per bocca di uno storico), l’ombra di un passato conflittuale s’incarna in enunciati che turbano la superficie delle immagini di Ex Libris. Ossia, soprattutto, la moltitudine degli spettatori (spesso ripresi in primo piano) delle conferenze, dei seminari, che nelle loro differenze di razza, cultura e condizione sociale sono filmati quasi come se fossero delle conseguenze di quei racconti. In tal modo, temporalità differenti tendono a depositarsi nell’immagine come altrettanti strati, a scavarvi una profondità del tempo.
Wiseman sa che la Storia non è un continuum liscio e lineare, ma un groviglio di linee che rimandano a piani differenti. Si parla e si vede dall’interno di questa configurazione multiplanare e dinamica, di cui si è parte. Occorre allora che la validità e l’efficacia degli enunciati siano continuamente misurate sul visibile che essi tentano di interpretare, che il dicibile sia costantemente verificato sul visibile. L’insistenza con cui nel corso del film si rimanda all’idea di un contesto di enunciazione (con tutte le sue componenti non verbali) è, in questo senso, sintomatica. Ci viene mostrato un consulente per il lavoro istruire i potenziali candidati ad affrontare un colloquio, raccomandando loro di saldare sempre le parole all’espressività del viso e delle posture corporee, in modo da risultare “brutalmente trasparenti”. L’interprete che traduce ai sordomuti due diverse letture (una “arrabbiata” ed una “implorante”) del testo della Dichiarazione di Indipendenza mostra quanto il linguaggio del corpo possa alterare il senso di un enunciato, indipendentemente dal codice utilizzato.
Per converso, bisogna che il visibile sia sempre ricollocato nella cornice discorsiva che ne orienta la comprensione. Quando Wiseman ci conduce a visitare la sterminata collezione di immagini che la Biblioteca ha avviato nel 1915 – repertorio iconografico ad uso degli artisti, ma anche, di fatto, impressionante archivio di memoria visuale di un intero paese – ci viene posto il problema della loro catalogazione. Quali criteri adottare? Torna in mente la famosa tassonomia cinese inventata da Borges e poi ricordata da Foucault all’inizio di Le parole e le cose: “gli animali si suddividono in: a) appartenenti all’Imperatore, b) imbalsamati, c) addomesticati, d) lattonzoli, e) sirene, f) favolosi, g) cani in libertà”, e via dicendo. L’incommensurabilità dei criteri e delle categorie, l’accavallarsi dei diversi piani epistemologici, schiudono il dominio dell’eterogeneo.
Procedere a ritroso, a partire da un’immagine, “sul filo della Storia” (come dice il curatore che illustra la collezione a un gruppo di giovani artisti) significa trovarsi continuamente all’incrocio con la pluralità dei discorsi che ridefiniscono le condizioni stesse della visione, alle prese con una molteplicità che rischia sempre di rigettarci nello sconcerto. Più che un filo da seguire, c’è un’intera matassa da sbrogliare. Non si tratta tanto di portare alla luce i meccanismi di funzionamento di un’istituzione, quanto di separare e isolare i processi che, intrecciandosi, hanno condotto le cose ad essere così come sono (come dice il biologo Richard Dawkins all’inizio del film). Se l’archeologo dei saperi mira all’individuazione di un a priori storico che regola la formazione degli enunciati, Wiseman vuol piuttosto giungere ad una forma che sia capace di aderire completamente ai suoi oggetti e alla loro storicità. Anche la sua è una ricerca della trasparenza.
Riferimenti bibliografici
M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Rizzoli, Milano 2016.