«Tutto è fermo nel rotolo del tempo, è mai possibile che tutto avviene come in un film? Eppure sembra che tutto accada in quel momento, e tu ci sei dentro»: si dice a un certo punto nello spettacolo che Roberto Andò ha ricavato (con la complicità drammaturgica di Emanuele Trevi) da uno dei romanzi chiave del nostro Novecento, Ferito a morte di Raffaele La Capria. Ed è proprio una cifra cinematografica ad aprire uno spettacolo dal fascino onirico e ipnotico. Sul grande velario che copre il proscenio si proietta la soggettiva subacquea della caccia alla “mitica” spigola, l’incipit di quel romanzo, che fu un esordio folgorante (Premio Strega nel 1961) e che costituisce una sorta di palinsesto del tempo entro cui traspare la Napoli degli anni ’50, rievocata nell’ambiente borghese di una gioventù dorata, negli interni familiari di quella stessa borghesia e negli esterni marini di una sorta di “paradiso perduto”, con le sue “belle giornate” e il sole a picco che-da-lungi-percuote (come lo nominarono i Greci, e come La Capria ricorda per bocca di un professorino inglese, Roger, nelle pagine del romanzo).
Su una pedana aggettante verso la platea, il personaggio-filtro del flusso memoriale, alter ego dello scrittore, Massimo De Luca adulto (un vibrante Andrea Renzi che alterna una levità accorata a una foga commossa e insieme ironica), abita un luogo della memoria, un angolo del tempo, disteso sul letto nello spaccato di una stanza piena di libri, mentre guarda agire e parlare il se stesso giovane, e sotto i suoi occhi i tasselli visivo-sonori del suo passato si alternano, si spostano nello spazio, che diventa una cavità speculare del tempo. Sono infatti i riflessi, le iridescenze, i riverberi immaginari gli elementi con cui, come note musicali, Andò orchestra quella che si rivela man mano sia una partitura teatrale che una sonata di fantasmi.
Non a caso l’impianto scenico fa uso di pareti a specchio, così come un grande specchio inclinato sovrasta una balconata posta in alto (che di volta in volta è terrazza del Circolo dove si svolgono le interminabili partite a carte, oppure spazio aperto dei balli e dei flirt vacanzieri tra il gruppo di giovani), rovesciandone il riflesso, come in una inquadratura plongée. Massimo è il giovane rampollo della buona borghesia napoletana che decide di andarsene, di allontanarsi da Napoli, di trasferirsi a Roma (come fece La Capria). Ma tagliare il cordone ombelicale, fuoriuscire da una placenta amniotica, riemergere da quei frammenti di vissuto, non è facile. Eppure, quasi dal fondo del mare, più voci, ad eco, lo chiamano per nome, fin dall’inizio: “Massimo! Massimo!”. Divincolandosi da un pigro, ammaliante, dormiveglia, Massimo risponde, con le parole di un sogno antelucano. Ascoltiamo la sua voce:
La spigola, quell’ombra grigia profilata nell’azzurro, avanza verso di lui e pare immobile, sospesa, come una fortezza volante quando la vedevi arrivare ancora silenziosa nel cerchio tranquillo del mattino. L’occhio fisso, di celluloide, il rilievo delle squame, la testa corrucciata di una maschera cinese – è vicina, vicinissima, a tiro – La Grande Occasione (La Capria 2021, p. 5).
Lentamente, come emerso in trasparenza dal fondale marino, si illumina l’interno della casa borghese: «Le poltrone del salotto, il lungo tavolo di legno scuro, il paralume verde, il divano, la macchia di caffè sul cuscino giallo» (ibidem). Una ragazza bionda è seduta su un letto sfatto, si pettina i lunghi capelli, si alza e lentamente attraversa nuda la scena, quella che lo stesso La Capria chiama epitomicamente “La Scena”: «Si ripresenta sempre identica: lo sguardo di Carla che splende come un mattino tutto luce in fondo al mare, e lei così vicina – anche il battito del cuore! – vicina, con l’occhio marino aspettando. E poi offesa? Stupita? Incredula? Prontamente disinvolta comunque, eccola di nuovo seduta sul letto pettinandosi, per sempre lontanissima, che tenta di superare l’imbarazzo» (ivi, pp. 5-6). Come la spigola che si vorrebbe possedere, e che si rintana negli anfratti sottomarini, Carla Boursier, la ragazza bellissima e desiderata, è anche lei una “occasione mancata”.
Lo spettacolo prende così forma come immerso in un acquario. La cadenza della memoria, le parole del romanzo, fluttuano, galleggiano: è un acquario dei giorni perduti. La regia di Andò si rivela come una liquida evocazione di immagini, ma soprattutto come una orchestrazione di voci, in accordo con la natura polifonica del romanzo di La Capria, con il suo andamento a intarsio temporale, con le sue risonanze musicali, con il suo flusso di coscienza di matrice joyciana, con le intermittenze, le sinestesie liriche di ascendenza proustiana.
L’impianto scenico di Gianni Carluccio è disposto su due piani: in alto un ballatoio terrazzato dove sfilano come presenze vocianti, chiassose, ancorchè fantasmatiche, i giovani personaggi del romanzo: le ragazze per cui perdere la testa, seduttive e libere, Carla (una flessuosa Laure Valentinelli) e Betty Borgstrom (una seduttiva e capricciosa Rebecca Furfaro), i vitelloneschi amici, Sasà, Guidino, Glauco, il fratello Ninì spensierato e animato dalla vitalità guizzante di un delfino (un Giovanni Ludeno insieme dolce e canagliesco), mentre in basso tre pedane mobili si spostano in avanti o scivolano sul fondo, e gli interni del salotto borghese, vengono invasi dalla risacca del mare, proiettata sull’impiantito del palco, come in un quadro di Savinio.
Un romanzo, quello di La Capria pervaso dall’atmosfera marina di una città dove il tempo sembra andare dolcemente sospinto, riversarsi a onde, slittando e riflettendosi nello specchio della memoria. Quello specchio è come posto nella mente stessa di Massimo che ha preso la decisione di lasciare quella città che «ti ferisce a morte o ti addormenta», per trasferirsi a Roma. Allora diventa plastica, materializzandosi in scena, la frase di W.H. Auden posta da La Capria ad esergo del romanzo: «Tra quelli che intendono la vita come un romanzo di formazione e quelli per cui il vivere significa rendersi visibili qui ed ora, è lì che sbadiglia un abisso che l’abbraccio non può colmare».
È appunto in un «qui ed ora» che le immagini della memoria accadono, si sovrappongono, si dislocano, ad intermittenza, dando luogo al bildungsroman, disseminandolo in un ritmo parola-luce. Allora l’educazione sentimentale e il romanzo di formazione di un ragazzo della ricca borghesia napoletana, così indolentemente indulgente con se stessa, i segmenti monologanti, le sequenze dei ricordi, si decostruiscono nello spettacolo, si scompongono e ricompongono in un montaggio a vista dove il suono si incastona nelle immagini, corrisponde alle evocazioni delle parole.
Anche qui le scelte di Andò sono decisive nel lavoro minuzioso sul tessuto dei suoni (il miagolio di un gatto, lo sciabordio del mare, lo sferragliare di un treno, il trillo di un telefono, i sussurri soffusi delle stanze accanto, i ballabili o le melodie napoletane) che si insinuano nelle «voci lontane sempre presenti» (l’abile tessitura sonora è di Hubert Westkemper).
Tutto ciò emerge nella lunga e bellissima scena del pranzo familiare a casa De Luca, dove di volta in volta, come con un taglio di montaggio che li isola, rimbalzano e si scambiano di posto, sulla scena cosparsa di tavoli singoli, i vari atteggiamenti e i chiacchiericci di familiari e amici: le risate supponenti dello zio Umberto (un divertito e divertente Marcello Romolo), le rimostranze insofferenti della madre (una veemente Gea Martire), le spietate invettive sulla malafede e la hubris di una Napoli «allegoria morale» irredimibile dell’amico comunista Gaetano (un Paolo Cresta che gioca magnificamente l’acredine del personaggio), il cicalare canterino della nonna (una Aurora Quattrocchi che ha la fragilità tenera di una falena nell’improvvisa danza serpentina “alla Pina Bausch” che sorprendentemente Andò le affida).
Inoltre è come se si evidenziassero nello spettacolo i tre registri del romanzesco, del sentimentale-melodrammatico e del commedico, che nel lavoro di La Capria si miscelano sostenuti da un fondo preminente: quello lirico. Ferito a morte potrebbe essere letto in questo senso come un romanzo-poema composto di melologhi intrecciati, cui sottostà il “basso continuo” del mare napoletano e dei misteriosi suoni della natura che pervade la città come una “foresta vergine”, insieme al vociare continuo della sua gente. Ciò nello spettacolo risulta come incastonato da un lato nel fondo marino della memoria e riflesso dall’altro in uno specchio obliquo. Vi echeggiano più volte i versi di W.H. Auden, scrittore d’elezione per La Capria. C’è un lungo poema-commentario di Auden sulla Tempesta shakespeariana, che ha un titolo Il mare e lo specchio, entro cui potrebbe anche riflettersi questo spettacolo, itinerario ondoso in cui la maturità guarda al mondo frantumato nello specchio della giovinezza. Auden ha scritto in quel poema, composto in monologhi, questi versi:
Che questo mondo di fatto che amiamo/
È non sostanziale scarto;/
tutto il resto è silenzio/
dall’altra parte del muro:/
e il silenzio è maturità/
e la maturità è tutto.
Lo spettacolo assume allora anche la forma di un tragitto continuamente interrotto tra giovinezza e maturità che confluiscono come in un gorgo, un vortice acqueo, un risucchio liquido che tutto trascina nel tempo perduto, e nel rigurgito dei ricordi, i quali portano insieme alla nostalgia delle belle giornate («Quei giorni…quali giorni poi? Saranno mai esistiti?» si chiede Massimo) anche l’agitazione amara di un naufragio. Come nell’incontro finale tra Massimo e Sasà (cui Paolo Mazzarelli conferisce una acredine insolita), tra chi se n’è andato via e chi (dopo aver goduto della Grande Occasione del corpo di Carla, unico e insospettabile tra gli amici) si è perduto, si è lasciato portare dalla deriva. Un incontro tra due solitudini, cui segue il suggello, non a caso, della proiezione di un’onda agitata e della frase di Massimo: «Non io più sarò qua». Un misconoscersi nella strana ebbrezza di guardarsi da fuori, di essere un altro da sé, una volta che sia avvenuto il fronteggiarsi a specchio dell’io giovane con l’io adulto e ci sia stato uno scambio di postazione scenica.
Massimo adulto è entrato definitivamente dentro il luogo della memoria, quasi fosse una proiezione nel futuro del Massimo giovane, che si è steso sul letto della pedana posta fuori dell’impianto scenico, riprendendo a crogiolarsi nel dormiveglia. «Lui solo con la grande occasione… e tutti i loro occhi puntati sulla scena». Quegli occhi dei ragazzi possono in dissolvenza-assolvenza identificarsi come quelle finestre-occhi che, corroso dal salmastro e dai secoli, l’antico Palazzo Donn’Anna (mescolando fantasmi, pescatori e borghesi) spalanca sulla scena del mare di Posillipo. In quel palazzo abitava il ragazzo Raffaele, detto Dudù, e direttamente da una di quelle finestre si tuffava a mare, si immergeva a capofitto sott’acqua, sommozzava per guardare dritto negli occhi la Grande Occasione. Con questo spettacolo è come se anche noi, per ricordare Dudù nell’anno in cui avrebbe compiuto cento anni, cogliessimo un’altra Grande Occasione: immergerci nel suo romanzo proprio mentre questo si incarna nella vita, nello specchio, nel grande mare del teatro.
Riferimenti bibliografici
W.H. Auden, Il mare e lo specchio, Se, Milano 1995.
R. La Capria, Ferito a morte, Mondadori, Milano 2021.
Ferito a morte. Regia: Roberto Andò; testo: Raffaele La Capria; suono: Hubert Westkemper; video: Luca Scarzella; costumi: Daniela Cernigliaro; scene e luci: Gianni Carluccio; interpreti: Andrea Renzi, Paolo Cresta, Giovanni Ludeno, Gea Martire, Paolo Mazzarelli, Aurora Quattrocchi, Marcello Romolo,
Matteo Cecchi, Clio Cipolletta, Giancarlo Cosentino, Antonio Elia, Rebecca Furfaro, Lorenzo Parrotto, Vincenzo Pasquariello, Sabatino Trombetta, Laure Valentinelli; produzione: Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Fondazione Campania dei Festival, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale; durata: 120′; anno: 2022.
*L’immagine presente nell’articolo e in anteprima è una foto di scena di Lia Pasqualino.