Quello che non so di lei (2017)

Un patto di credenza si attiva di fronte a un testo. Se si legge un romanzo o si vede un film il lettore e lo spettatore vengono come convocati e assorbiti nello spazio del testo. Si crea un campo di attrazione che unisce scrittura/lettura e immaginazione. La differenza del romanzesco letterario rispetto a quello cinematografico consiste però nella personificazione del fantasma al cinema, che assume una sua verità. Al cinema avviene l’incarnazione del fantasma nello spazio e nei corpi immaginati dalla scrittura, che si riversa nel credere immanentemente in ciò che appare e agisce nell’apparenza. “La gente crede in ciò che è scritto” dice una battuta del nuovo film di Polanski, il cui titolo originale D’apres une histoire vrai (Da una storia vera) è stato sciaguratamente tradotto in Quel che non so di lei, per rendere in modo maldestro l’ambiguità del nome di una delle due figure femminili del film, quella interpretata con superba e sinistra diabolicità da Eva Green.

“Elle” suona “Lei”:  misteriosa ghost girl, fan che si insinua nella vita e nella casa della scrittrice, con intenti oscuramente ambigui, che si sostituisce virtualmente a Delphine, che se ne prende cura e cerca di eliminarla, che la spinge a scrivere un libro “nascosto” e rimosso e le impedisce di scrivere il nuovo romanzo, che rovescia le posizioni introducendo un doppio vampirismo (sarà anche la scrittrice a risucchiare gli elementi, immaginari, della vita e del passato altrettanto nascosti di “lei” mandando in cortocircuito la corrente del loro rapporto). Quel “lei” possiede il falso e il vero di ogni fantasma. Come sempre nel cinema di Polanski (ricordiamo L’inquilino del terzo piano, 1976, e L’uomo nell’ombra, 2010) questa circolazione spettrale e questo travaso perturbante di identità, quasi una possessione, si dipana come un’aura demonica nello spazio e nei corpi.

Il fantasma comincia a lasciare tracce inquietanti nei luoghi e nel modo in cui agisce e si fa veicolo oggettuale di apprensione allucinatoria (accadeva così in Repulsion, 1965) e comincia a impossessarsi dei corpi filmici attraverso cui manifestare il circuito ossessivo. In altri termini lo spettro si scrive nei corpi e nei luoghi. Qui la genialità dell’impianto consiste nel fatto che la verità di ciò che si scrive ( in cui la gente ha l’illusione di  credere) è assolutamente congetturale, borgesianamente “messa in abisso” nel disseminare il reale di potenze del falso che rendono indecidibile ciò che vediamo, e per di più è pressoché indistricabile sia dal vuoto della pagina bianca che da una scrittura tenuta in potenza, sospesa nel fantasmatico ( la scrittrice di successo mano a mano che irrompe il fantasma incarnato da Elle nella sua vita, non riesce più a scrivere, e attiva una vertigine della pagina bianca, un gesto interrotto, quello dello scrivere che non riesce a compiersi).

La potenza del falso in cui si esorcizzerebbero i propri fantasmi, l’immaginare un romanzo, quello che nel film resta cachè, nascosto, il “romanzo occulto”, segreto (come in La nona porta, 1999 o ancora nel verhoeveniano Black Book, 2006, film in cui è sempre questione di scambio di identità di corpi e di “libri” segreti), si incarnano al punto tale nel gioco ossessivo di assorbimento dell’identità, di insinuazione del fantasma (che, come si allude nel finale, nella coincidenza del vestito e del trucco delle due donne, si identifica con un doppio) da coincidere con il film stesso. La paradossale verità indecidibile della storia cui abbiamo assistito è lo stesso libro, che, nel frattempo, senza che noi o la scrittrice ce ne accorgessimo è stato scritto, si è incarnato nella scrittura spettrale, cioè nel film stesso.

Perché questa scrittura possa attuarsi deve entrare in gioco, nello spazio e nei corpi, anche lo sguardo dello spettatore. Non a caso il film si apre e si chiude con le inquadrature da un “fuori campo” in soggettiva, incollocabile, del volto, che ci guarda, di Delphine intenta nel firmare la dedica a un nome proprio (che si fa improprio nel momento in cui la dedica è a “Elle”, a una “impersonalità” di terza persona). Siamo noi, nella nostra stessa impersonalità di voyeur, che veniamo appellati dallo schermo. Ancora tipico in Polanski è questo inscrivere lo sguardo obliquo e inquieto di un altro nello spazio domestico infestato, sottoposto a un sortilegio. La casa in campagna dove si risolve in un incubo la vicenda rimanda sia al palazzo newyorkese indemoniato di Rosmary’s baby (1968), sia alla villa coi finestroni sul mare di The Ghost writer, e la figura della finestra, dietro i cui vetri alligna l’apparizione del fantasma, ritorna più volte qui (Delphine ha l’abitudine di scrivere di fronte a una finestra, e l’apparizione fantasmatica di Elle avviene allucinatoriamente da una “finestra di fronte”). Allora significativo è il libro per bambini di figure cartonate La maison hantèe che non solo riattiva alla memoria la casa di L’inquilino del terzo piano ma fa riemergere dal rimosso di Delphine i fantasmi dell’infanzia e della madre.

È appunto uno spettro parentale, quello della madre di Delphine morta tragicamente (di cui si vede nella scena dell’inaugurazione della mostra un grande e sinistro ritratto, che sembra quello del premingeriano Vertigine, 1944) che insiste da un aldilà divenuto immanente dal punto in cui “lei”, la terza persona fantasmatica, immette nella vita quotidiana, nel reale, nelle abitudini, impegni, fantasie della scrittrice una presenza che si cancella quando il processo di  vampirizzazione e spossessamento di identità sembra micidialmente compiuto, salvo a riapparire, nella stessa ricomparsa che la assorbe nello specchio della mente della scrittrice, quando la sua verità, la verità del fantasma viene ad inerire con l’“essere fatto” stesso del film (e del romanzo). Questo meccanismo di comunicazione delle anime parentali proviene anche proprio dalla scrittura del film, sceneggiato con Olivier Assayas, il quale nel 2016 gira Personal Shopper, dove non solo c’è il medesimo rapporto di “sostituto di identità” (il personal shopper è analogo al ghost-writer) ma anche lo “sdoppiamento” gemellare trasferito nella comunicazione con l’aldilà.

Il transitare di anime, il trascolorare delle due imago femminili, il loro sovrapporsi e scindersi, il loro sdoppiarsi e raddoppiarsi, il loro scambio di maschere fanno di questo film una sorta di polanskiana versione del film di Persona (Bergman, 1966)  (che pure si apre con l’enigmatica visione del fantasma materno riattivato e carezzato da un bambino su uno schermo). In Quello che non so di lei Polanski fa emergere una vertigine del rapporto persona-impersonale che suscita un “terzo” operatore per una “riconversione”. In altri termini, l’irruzione di Elle nella vita è l’avvento di un personaggio senza nome, un personaggio-pronome, un personaggio “eliso”, venuto dal nulla e poi scomparso nel suo essere nessuno. E ciò sembra avere un esito a un tempo liberatorio e perturbante, perché il ritorno del fantasma non solo è sempre possibile ma è la sua forma di vita stessa.

I fantasmi ritornano ogni volta sullo schermo di un testo e il loro apparire è intimamente connesso con il loro sparire. Su questa funzione di “terzo” impersonale ricondotta a una specie di immanenza vivente di ciò che non ha nome e persona, ha riflettuto Roberto Esposito in due grandi libri Due e Terza Persona. Ora la visione di Quello che non so di lei, è come se “inverasse” l’ effetto della terza persona, che si sottrae al dispositivo escludente della persona per riattingere a un essere vivente irriducibile. Il “terzo” avviene dopo una riconversione in un “lei” della seconda persona, della proiezione in un “tu” dei propri fantasmi: è l’irrompere proprio-improprio di Elle nella vita. «La seconda persona – da cui quella umana si genera – è dunque u soggetto che può assoggettare altri solo se si assoggetta a colui che gli ha conferito tale prerogativa, fino a quando questi non lo riassorbirà dentro di sé» (Esposito 2013, p. 96).

Nel film, mentre da un lato si agisce il doppio, il duale, dall’altro si fa emergere una identificazione, una unità dello sguardo impersonale, che è tanto del regista, quanto dello spettatore, e in fondo del film stesso nella cui scrittura lo spettro si è perfettamente incarnato. «Se da un lato l’incontro col fantasma annulla la separazione tra presenza e assenza, tra realtà e irrealtà, dall’altro sconnette il presente e lo rende spaventoso poiché rappresenta qualcosa che non si lascia padroneggiare, che è stato messo a tacere ma che è in agguato e che si agita per essere ascoltato» (Zangardi 2008, p. 15). Nell’Antologia della letteratura fantastica si può leggere un breve testo di George Loring Frost, Un credente (1923): «Al sopraggiungere della sera due sconosciuti si incontrarono negli oscuri corridoi di una galleria di quadri. Con un leggero brivido uno di essi disse: – Questo posto è sinistro. Lei crede ai fantasmi? -No – rispose l’altro – e lei?.- Io, si – disse il primo e scomparve» (Borges, Ocampo, Bioy Casares 1981, p. 233). Una scena che Polanski avrebbe potuto girare.

Riferimenti bibliografici
R. Esposito, Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero Einaudi, Torino 2013.
Id.,Terza persona Einaudi, Torino 2007.
S. Zangardi, Pagine infestate. I fantasmi e la tradizione fantastica del XX secolo Arcipelago, Milano 2008.
J. L. Borges, S. Ocampo, A. Bioy Casares, Antologia della letteratura fantastica Editori Riuniti, Roma 1981.

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