«Čechov e Shakespeare non basteranno più. Dobbiamo trovare un nuovo linguaggio». È un concetto su cui Milo Rau ha insistito più volte durante le numerose interviste, dirette social, ecc. che ci stanno accompagnando dall’inizio dell’epoca Covid. In realtà, visto oggi, l’intero lavoro di Milo Rau sembra rappresentare il lungo percorso decennale di sperimentazione della forma teatrale nella messianica attesa del nostro presente distanziato e interconnesso. «Sono isolato ma mi sento più connesso di prima», ha dichiarato infatti in un’intervista a “Repubblica” il regista svizzero durante il lockdown. Una condizione esistenziale che parrebbe per analogia descrivere lo stato del (suo) teatro, alle prese con un progressivo distanziamento impersonale dalle sue prassi rappresentative (basti pensare, con poche eccezioni, a tutti gli esperimenti di re-enactment da Gli ultimi giorni di Ceausescu del 2009 in poi) e con l’alienazione mediale e metacinematografica del suo linguaggio (come nelle recenti rielaborazioni pasoliniane del Vangelo secondo Matteo e di Salò). In altre parole, un teatro alle prese con un ambiente mediale e virtuale della scena che sembrerebbe sempre più sopperire – se non del tutto sostituire – all’assenza del pubblico e dell’esperienza viva.

Si tratta di una lettura impersonale del teatro di grande interesse e originalità, che per certi versi si potrebbe anche condividere, soprattutto per la capacità che il suo stesso paradosso fondativo ha avuto nel precorrere, ottimizzandolo e problematizzandolo allo stesso tempo, il nostro presente storico e le sue ricadute sull’intero spettro delle arti dello spettacolo.

Se non fosse però che per Rau tutto ciò sembra sempre più prendere la forma di un grande lavoro archeologico sulla histoire(s) du théâtre, come recita godardianamente il sottotitolo di un suo spettacolo recente: un’imponente opera di ricostruzione genealogica alla scoperta della radice comune tra la scena e il primo linguaggio umano dell’azione e della realtà. Quello di Rau, in altri termini, è un teatro espressamente inteso come “lingua scritta della realtà” in cui scena, vita e Storia formano un tutt’uno indistinto, accessibile solo attraverso dogmi etico-estetici rigorosissimi (tutti i suoi spettacoli sono costruiti secondo le rigide prescrizioni del Ghent Manifesto, di cui è egli stesso autore), da cui è intenzionalmente preclusa qualsiasi reinvenzione politica e finzionale della realtà in nome di un principio di adesione intima e mimetica alla realtà stessa.

Familie, in scena in prima nazionale in questi giorni al Roma Europa Festival, non fa in questo senso alcuna eccezione. Come nei lavori precedenti, è una scenografia iperrealistica sormontata da un grande schermo a costituire la macchina spettacolare. L’ultimo giorno di vita di una famiglia di Calais suicidatasi senza alcun apparente motivo nel 2007 viene rivissuto da una vera famiglia di attori. Le mura vetrate dell’appartamento lasciano vedere ogni evento che prelude alla tragedia (la cena, il padre e le due figlie che guardano i filmini di famiglia seduti sul divano, la madre che lava i piatti, ecc.) mentre al di sopra, sullo schermo, l’azione è raddoppiata attraverso le riprese dal vivo degli stessi eventi da una diversa angolazione. Un vero e proprio piano cinematografico dell’azione teatrale realizzato attraverso zoom, controcampi, primi piani, ecc., per mezzo del quale prende corpo una dilatazione mediale della scena, una sua risemantizzazione audiovisiva.

Deviare dal piano della rappresentazione per recuperare un legame (cinematografico) di adesione al reale, scartare cioè dal regime trascendente e ideale della rappresentazione non per mezzo della performance (la scrittura scenica attraverso il corpo e la voce dell’attore), ma di una pura presenza reale “rivissuta”, è la cifra di un’esperienza che fa paradossalmente del carattere impersonale e riproducibile del teatro la sua stella cometa. Questa è la ragione per cui il teatro di Rau, pur ponendosi esplicitamente l’intento di modificare il mondo (prima regola del Ghent Manifesto è «Non bisogna rappresentare il mondo ma cambiarlo»), è in verità intimamente anti-politico, nella maniera in cui annulla qualsiasi possibilità di intercessione della realtà con la scena, qualsiasi sua interpolazione finzionale.

È un teatro al contrario profondamente “cinematografico”, non tanto nel senso che utilizza, come in effetti fa, gli strumenti tecnici del cinema, quanto perché sostituisce la vita politica della scena, autonoma e libera dai codici empirici del reale, con il dispositivo etico-estetico di riproduzione della realtà mimetica nell’immagine, di cui il politico è un mera ricaduta. Rau oggi ci appare sempre più come il grande erede di Stanislavskij (lo stesso appartamento di Familie è una sintesi tra la casa di un reality e le “infinite minuzie” del Teatro d’Arte di Mosca), la sua opera come la più radicale continuazione di quel percorso di sostituzione dell’immedesimazione con la personificazione, la rappresentazione con l’essere, che non a caso aveva trovato a Hollywood il suo luogo elettivo.

Intendiamoci, l’esito, in questo come in altri casi, è per certi versi entusiasmante. La potenza espressiva degli spettacoli di Rau si conferma in modo totale, alla pari della sua capacità di esercitare con straordinaria efficacia sullo spettatore la violenza emotiva che mostra. Ed è anche vero che momenti di interpellazione, che per un attimo sospendono l’enactment mimetico, sono ancora presenti. Ma è come se ogni suo spettacolo volesse portare a termine il sogno abortito di Lars von Trier, quando intendeva mettere in scena il Ring wagneriano alla Festspielhaus di Bayreuth nel 2004 attraverso la visibilità totale dell’immagine, l’uso costante degli schermi su cui proiettare dal vivo il fuori campo della scena. Anche lì, non a caso, c’era un altro decalogo, altri dogmi e variazioni, un altro dover-essere, da rispettare o da infrangere. La stessa etica della scena, riprodotta e riproducibile, di cui il teatro di Rau sembra oggi volersi far interprete.

Riferimenti bibliografici
F. Ceraolo, Registi all’opera. Note sull’estetica della regia operistica, Bulzoni, Roma 2011.

Familie. Regia: Milo Rau; testo: Milo Rau & ensemble; scenografia: Anton Lukas; operatore video e suono: Raf Willems; luci: Dennis Diels; musiche: Saskia Venegas Aernouts; interpreti: Leonce Peeters, Louisa Peeters, An Miller, Filip Peeters; produzione: Romaeuropa Festival, Künstlerhaus Mousonturm, Schauspiel Stuttgart, Théâtre de Liège, Scène Nationale d’Albi; anno: 2020; durata: 90′.

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