un affare di famiglia

Tanto sono affiatati papà Osamu e il piccolo Shota quando rubano al supermercato, tanto i loro gesti, segnali, sguardi muti parlano di perfetta intesa, che il loro legame si riconosce inequivocabilmente e da subito come quello tra padre e figlio. Stessa complicità e accordo regnano a casa, in famiglia, quando a nonna, mamma Nobuyo e sua sorella Aki, si aggiunge Juri, una bambina fuggita da genitori violenti, in tutto accolta e curata come figlia, ribattezzata Rin e amorevolmente nascosta alle ricerche delle autorità.

Con Un affare di famiglia, vincitore della Palma d’Oro a Cannes, Hirokazu Kore’eda continua a fare ritratto dei legami familiari, questa volta focalizzandosi sulla loro creazione, sul loro riconoscimento anche al di là dell’effettivo vincolo di sangue o della legalità. Come il cinema, allora, la famiglia è o può essere un dispositivo, qualcosa che (si) crea. Come il cinema, è un’invenzione il cui avvenire non già dato, è sempre da programmare, da scrivere progressivamente. Alla giornata, anche, se professioni che supponiamo poco gratificanti (Osamu è un operaio, Nobuyo impiegata in una grande lavanderia, Aki lavora in un locale di peep show) impongono un quotidiano e complice arrangiarsi, furtarelli compresi. L’intesa tra Osamu e Shota nella prima scena di furto è tale da eludere, come la sorveglianza del negozio, così anche lo spazio, scaffalature, ripiani che si frapporrebbero tra loro, e la stessa continuità del raccordo di montaggio nel rispetto della norma dei 180 gradi, se la macchina da presa viene a trovarsi ora da un lato ora dall’altro del personaggio. I due intrattengono un legame comunque.

Si è, infatti, all’inizio del film, e i due s’intendono per occhiate e segni muti come all’inizio del cinema. L’avvenire non è ancora scritto: non esistono ancora le prescrizioni normative di una cosiddetta corretta sintassi filmica, come per il nucleo familiare che accoglie e nasconde Juri/Rin come figlia o sorellina non esiste prescrizione alcuna (non biologica, non legale, come si è accennato) a vietare l’adozione, la crescita del legame affettivo. Ecco quindi che nuovi rapporti come nuovi raccordi (non importa se sbagliati) sono possibili nella minuscola casa di Osamu. Il pur angusto spazio, non sembra, poi, a dispetto della saturazione fatta ancora più evidente dalla vivacità del chiacchiericcio a tavola intorno al cibo da asporto, stare tanto stretto a chi lo abita in maniera così complice, così serena, e in accordo col nipponico culto delle cose minute, le fragili o le transitorie. Che nel lavoro di Kore’eda è estremizzato a livello visivo come compattazione spaziale a creare maggiore intimità (si pensi, ad esempio, a Unimachi Diary, Little sister, 2015, con le protagoniste più volte viste insieme alle finestre, o tra i vani delle porte, quattro sorelle strette le une alle altre negli effetti di quadro nel quadro).

“In verità, tutte le cose piccole sono belle”, è detto a più riprese in quel compendio di costumi, gusto, aneddoti giapponesi che è Note del guanciale. Nella famiglia messa in scena nel film, come, forse, nella messa in scena di ogni famiglia, contano infatti le piccolezze che nulla sembrano avere di straordinario. Sono quelle, nella loro ripetitiva quotidianità, il veicolo che permette la coltivazione dei legami, non vincoli parentali, generativi. È la consuetudine a cementarli, come nella compattezza e intimità della dimensione spaziale, così nella pratica giornaliera di interessi reciproci e affetti in quella temporale. Regolarità, allora, consuetudine e temporalità di rapporti sono della famiglia come del cinema.

D’altronde, quanto a invenzione e ripetizione (della famiglia di Osamu, della famiglia nel cinema di Kore’eda), come sosteneva Ozu, un regista somiglia un po’ a un cuoco specializzato nella perfetta preparazione di uno stesso piatto. È a lui, del resto, che farebbe pensare la quotidianità della famiglia scrutata tra le cornici di porte a soffietto, spesso ad altezza tatami e per raccordi (che da occidentali si direbbero) sbagliati. Ma, come per le musiche leziose che arrivano a siglare dialoghi (spesso giustamente anodini, propri del quotidiano familiare) in cui sembra affiorare la pur blanda premessa di un malinteso che minerebbe la perfetta complicità familiare (Shota geloso di Rin e puntualmente riconquistato da Osamu; Rin che fatica a chiamare “mamma” Nobuyo, ecc.), e puntualmente sciolto, il “sapore del piatto” di Kore’eda è più stemperato, o come se il gusto del Sakè si fosse fatto, per ulteriore fermentazione e ripetizione, più zuccherino.

È infatti lontana, qui, la saggezza Zen che faceva dire alla Noriko di Viaggio a Tokyo (1953) che la vita è deludente, ma col sorriso, e che costituiva la chiave per la consapevolezza della tragicità della natura umana e al contempo per la sua accettazione. I personaggi di Kore’eda si pretendono invece felici, si mettono in scena come famiglia “contro natura” e, paradossalmente, ancor più di ogni famiglia “naturale” in senso biologico, naturale nel trovarsi sempre come allo stato di natura, se a sancire i legami sono composizioni e convergenza di interessi (tutti traggono beneficio dalla cospicua pensione della nonna), bisogni affettivi elementari, scambio e rispondenza.

I rapporti nascono perché si sono voluti, cercati, desiderati con ogni mezzo e a dispetto di tutto. Come Shota non ha bisogno di sorvegliare la sorellina adottiva per insegnarle a rubare, anche Aki può, forse, innamorarsi del cliente che la guarda benché al di là del vetro del peep show, desiderandolo davvero allo stesso modo che ogni interazione tra personaggi pareva possibile malgrado fra loro si frapponessero, ripetutamente, elementi del décor. Sono però legami tanto forti e fortemente voluti, da non essere “veri”, e nessuno forse lo è rispetto allo stato di diritto, benché a nessuno importi.

Quando l’ordine costituito arriverà a scoprire gli scheletri nell’armadio di Osamu e suoi, eccoli indeboliti negli interrogatori, soli nell’inquadratura, relegati al sistema campo/controcampo a norma per quanto di sguardi a filo macchina. Forza della famiglia era infatti fondarsi sul riconoscimento di legami contingenti, creati, più che su vincoli e istituti (civili, biologici) necessari. Come il cinema, è dispositivo, invenzione, creazione di rapporti in una forma temporale, compattati nello spazio. Una non prescritta, ma vissuta grammatica (di affetti). E, tutto sommato, nota: familiare anche nel sapore, per quanto stemperato.

Riferimenti bibliografici
Y. Ozu, Scritti sul cinema, Donzelli, Roma 2016.
S. Shonagon, Note del guanciale, SE, Milano 2014.

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