di ALESSANDRO CAPPABIANCA
Falling. Storia di un padre di Viggo Mortensen.
Come mai Viggo Mortensen, attore di grande professionalità, dal nome che risuona tra l’altro in maniera leggermente inquietante almeno nella mente di noi italiani, decide a 62 anni di dirigere (e produrre) il suo primo film, e sceglie un soggetto (il rapporto tra un figlio e suo padre) che potrebbe sembrare autobiografico, ma non lo è (almeno, non del tutto)? A dargli la replica, come interprete, Lance Henriksen, un altro grande attore, di origini norvegesi.
Lo stesso Mortensen (madre statunitense, padre danese), interprete favorito di David Cronenberg (si pensi alla trilogia A History of Violence, La promessa dell’assassino e A Dangerous Method), ha dichiarato spesso che il film gli è venuto in mente dopo la morte della madre, come si trattasse di regolare i conti col padre e con i fantasmi (anche immaginari) di una complicata convivenza. Possiamo considerare Falling come storia di un padre o come storia di un figlio, ma si tratta, oltre che del conflitto tra due mentalità, anche dello scontro tra gli Stati Uniti democratici e quelli trumpiani, con tutto il carico di risvolti e pregiudizi sessuali che inevitabilmente si porta dietro.
Mortensen è John Peterson, pilota di aerei, omosessuale e sposato con Eric, infermiere hawaiano. Hanno adottato una bambina (Monica). Suo padre Willis è Henriksen, ma c’è anche un Heriksen giovane, interpretato da Svein Gudmason, attore di origini islandesi. Laura Linney invece è Sarah, la sorella di John. Abbiamo dunque due Willis, mentre attori diversi, in apparizioni anche brevi, incarnano le età diverse dei due ragazzi. Nel dipanare l’intreccio di origini e nazionalità diverse, Mortensen se la cava grazie al suo plurilinguismo (parla bene l’inglese, lo spagnolo, l’italiano e altre lingue); ma il film è tutto costruito sulla differenza tra vecchiaia, come condizione naturale, inevitabile, al limite accettabile, e invecchiamento come progressivo deteriorarsi mentale, qualcosa che non solo non riconosce la diversità, ma arriva a negare l’esistenza (la morte della moglie di Willis) realmente verificatisi.
Willis non può accettare questa morte, di cui si sente oscuramente responsabile, a costo di far passare la propria memoria, davanti agli altri, davanti a tutti, in condizioni peggiori di quanto realmente sia. Non solo: si compiace di auto-compiangersi, evidenzia ogni volta che può l’urgenza delle sue funzioni fisiologiche, e racconta a tavola quelle infantili di John, fa di tutto, insomma, per rendersi il più possibile sgradevole, per quanto la bambina dei Peterson lo abbracci e insista a chiamarlo nonno. È forse l’adozione della bambina, oltre al matrimonio omosessuale di John, che Willis non può accettare. Per la bambina, il nonno diventa quello che un tempo i redattori della rivista psicanalitica “Piccolo Hans” definirono il Non-no: tutto ciò che vuole le è concesso e dovuto, malgrado i “genitori” tentino di opporsi. Scatta allora subito il meccanismo delle recriminazioni, scattano le accuse di invidia, di monopolio illecito dell’amore.
La sgradevolezza di Willis è subito rappresentata durante il volo aereo, con John, verso Los Angeles. Cerca freneticamente il gabinetto, ruba a un passeggero un bicchiere di qualcosa, si chiude dentro e non saprebbe più uscire, se non seguendo le istruzioni che il figlio gli dà dal di fuori. Dopo l’atterraggio, nella hall dell’aeroporto, non accetta di aspettare su una sedia a rotelle, guarda male certe donne col velo islamico, manda il figlio a recuperare gli occhiali “dimenticati” sull’aereo e ne approfitta per sparire, facendo aumentare la preoccupazione di John.
Insistenti nella memoria di Willis emergono soprattutto due immagini: lui e il figlio piccolo a caccia, appostati in un bosco, quasi abbracciati. Nella prima, il padre chiede al bambino se vuole sparare, gli cede il fucile. John spara, e colpisce il bersaglio (un uccello), cosa di cui Willis è orgoglioso. Nella seconda immagine, la situazione è la stessa, solo che Willis passa il fucile a John, e questi rifiuta di sparare, esita, finché la preda scompare. Nella caccia, universo degli uomini “veri”, il figlio delude il padre, gli dimostra di “non essere all’altezza”. I suoi capelli lunghi, il rifiuto di tagliarli, preannunciano l’omosessualità. La storia si ripete con i giovani (i figli di Sarah) di cui Willis constata con orrore la tendenza a farsi crescere i capelli lunghi.
Da questo punto in poi, Willis non vuole più essere toccato dal figlio, pretende di non essere neppure guardato mentre un professore compie l’esplorazione rettale per stabilire l’esistenza o meno di un tumore prostatico. Il tumore in effetti c’è, ma ancora rimediabile. Lo attesta lo stesso Cronenberg, in una breve prestazione come attore. Tutta la famiglia, compresa Sarah, a un certo punto va a visitare una mostra di quadri di Picasso. Accodatosi contro voglia, Willis non manca di sbraitare contro quel fottuto pittore comunista, pronto a ogni deformazione rispetto al realismo fotografico, ma che almeno amava le donne.
Accade tuttavia una specie di miracolo, la scena dell’abbraccio finale tra Willis e John, dove Mortensen dimostra la sua maestria anche come regista. Era una scena che poteva grondare retorica, e invece si mantiene nei limiti della sobrietà: il padre non si pente, il figlio non si pente, tutti e due sono soltanto mossi da qualcosa che poteva verificarsi tra loro fin dall’inizio e che finalmente si realizza. I cavalli liberati nella radura cullano il sonno dell’amore infine pacificato.
Falling. Storia di un padre. Regia: Viggo Mortensen; sceneggiatura: Viggo Mortensen; fotografia: Marcel Zyskind; montaggio: Ronald Sanders; interpreti: Viggo Mortensen, Lance Henriksen, Laura Linney; produzione: Scythia Films, Zephyr Films, Perceval Pictures, Ingenious Media, Lip Sync Productions, HanWay Films; distribuzione: BiM Distribuzione; origine: Canada, Regno Unito, Danimarca; anno: 2021; Durata: 112′.