Come mai Viggo Mortensen, attore di grande professionalità, dal nome che risuona tra l’altro in maniera leggermente inquietante almeno nella mente di noi italiani, decide a 62 anni di dirigere (e produrre) il suo primo film, e sceglie un soggetto (il rapporto tra un figlio e suo padre) che potrebbe sembrare autobiografico, ma non lo è (almeno, non del tutto)? A dargli la replica, come interprete, Lance Henriksen, un altro grande attore, di origini norvegesi.
Lo stesso Mortensen (madre statunitense, padre danese), interprete favorito di David Cronenberg (si pensi alla trilogia A History of Violence, La promessa dell’assassino e A Dangerous Method), ha dichiarato spesso che il film gli è venuto in mente dopo la morte della madre, come si trattasse di regolare i conti col padre e con i fantasmi (anche immaginari) di una complicata convivenza. Possiamo considerare Falling come storia di un padre o come storia di un figlio, ma si tratta, oltre che del conflitto tra due mentalità, anche dello scontro tra gli Stati Uniti democratici e quelli trumpiani, con tutto il carico di risvolti e pregiudizi sessuali che inevitabilmente si porta dietro.
Mortensen è John Peterson, pilota di aerei, omosessuale e sposato con Eric, infermiere hawaiano. Hanno adottato una bambina (Monica). Suo padre Willis è Henriksen, ma c’è anche un Heriksen giovane, interpretato da Svein Gudmason, attore di origini islandesi. Laura Linney invece è Sarah, la sorella di John. Abbiamo dunque due Willis, mentre attori diversi, in apparizioni anche brevi, incarnano le età diverse dei due ragazzi. Nel dipanare l’intreccio di origini e nazionalità diverse, Mortensen se la cava grazie al suo plurilinguismo (parla bene l’inglese, lo spagnolo, l’italiano e altre lingue); ma il film è tutto costruito sulla differenza tra vecchiaia, come condizione naturale, inevitabile, al limite accettabile, e invecchiamento come progressivo deteriorarsi mentale, qualcosa che non solo non riconosce la diversità, ma arriva a negare l’esistenza (la morte della moglie di Willis) realmente verificatisi.
Willis non può accettare questa morte, di cui si sente oscuramente responsabile, a costo di far passare la propria memoria, davanti agli altri, davanti a tutti, in condizioni peggiori di quanto realmente sia. Non solo: si compiace di auto-compiangersi, evidenzia ogni volta che può l’urgenza delle sue funzioni fisiologiche, e racconta a tavola quelle infantili di John, fa di tutto, insomma, per rendersi il più possibile sgradevole, per quanto la bambina dei Peterson lo abbracci e insista a chiamarlo nonno. È forse l’adozione della bambina, oltre al matrimonio omosessuale di John, che Willis non può accettare. Per la bambina, il nonno diventa quello che un tempo i redattori della rivista psicanalitica “Piccolo Hans” definirono il Non-no: tutto ciò che vuole le è concesso e dovuto, malgrado i “genitori” tentino di opporsi. Scatta allora subito il meccanismo delle recriminazioni, scattano le accuse di invidia, di monopolio illecito dell’amore.
La sgradevolezza di Willis è subito rappresentata durante il volo aereo, con John, verso Los Angeles. Cerca freneticamente il gabinetto, ruba a un passeggero un bicchiere di qualcosa, si chiude dentro e non saprebbe più uscire, se non seguendo le istruzioni che il figlio gli dà dal di fuori. Dopo l’atterraggio, nella hall dell’aeroporto, non accetta di aspettare su una sedia a rotelle, guarda male certe donne col velo islamico, manda il figlio a recuperare gli occhiali “dimenticati” sull’aereo e ne approfitta per sparire, facendo aumentare la preoccupazione di John.
Insistenti nella memoria di Willis emergono soprattutto due immagini: lui e il figlio piccolo a caccia, appostati in un bosco, quasi abbracciati. Nella prima, il padre chiede al bambino se vuole sparare, gli cede il fucile. John spara, e colpisce il bersaglio (un uccello), cosa di cui Willis è orgoglioso. Nella seconda immagine, la situazione è la stessa, solo che Willis passa il fucile a John, e questi rifiuta di sparare, esita, finché la preda scompare. Nella caccia, universo degli uomini “veri”, il figlio delude il padre, gli dimostra di “non essere all’altezza”. I suoi capelli lunghi, il rifiuto di tagliarli, preannunciano l’omosessualità. La storia si ripete con i giovani (i figli di Sarah) di cui Willis constata con orrore la tendenza a farsi crescere i capelli lunghi.
Da questo punto in poi, Willis non vuole più essere toccato dal figlio, pretende di non essere neppure guardato mentre un professore compie l’esplorazione rettale per stabilire l’esistenza o meno di un tumore prostatico. Il tumore in effetti c’è, ma ancora rimediabile. Lo attesta lo stesso Cronenberg, in una breve prestazione come attore. Tutta la famiglia, compresa Sarah, a un certo punto va a visitare una mostra di quadri di Picasso. Accodatosi contro voglia, Willis non manca di sbraitare contro quel fottuto pittore comunista, pronto a ogni deformazione rispetto al realismo fotografico, ma che almeno amava le donne.
Accade tuttavia una specie di miracolo, la scena dell’abbraccio finale tra Willis e John, dove Mortensen dimostra la sua maestria anche come regista. Era una scena che poteva grondare retorica, e invece si mantiene nei limiti della sobrietà: il padre non si pente, il figlio non si pente, tutti e due sono soltanto mossi da qualcosa che poteva verificarsi tra loro fin dall’inizio e che finalmente si realizza. I cavalli liberati nella radura cullano il sonno dell’amore infine pacificato.
Falling. Storia di un padre. Regia: Viggo Mortensen; sceneggiatura: Viggo Mortensen; fotografia: Marcel Zyskind; montaggio: Ronald Sanders; interpreti: Viggo Mortensen, Lance Henriksen, Laura Linney; produzione: Scythia Films, Zephyr Films, Perceval Pictures, Ingenious Media, Lip Sync Productions, HanWay Films; distribuzione: BiM Distribuzione; origine: Canada, Regno Unito, Danimarca; anno: 2021; Durata: 112′.