De André non se ne è mai andato. Scomparso nel 1999, il suo profilo di chansonnier dolce e maledetto si è conficcato nell’immaginario contemporaneo, grazie anche all’opera di iniziative discografiche ed editoriali, mostre (cfr. Bo, Harari, Studio Azzurro 2008), trasmissioni televisive e manifestazioni che ne hanno perpetuato il ricordo con determinazione, se non con insistenza. Eppure Faber manca, come dimostra il successo (relativo) di un progetto come quello di The André, anonimo cantante che reinterpreta l’attuale repertorio trap sfruttando le proprie risorse vocali in una mimesi iper-realista che proietta il passato sul presente (ascoltate The André che canta Rolls Royce di Achille Lauro: un vero e proprio collasso temporale). Il fascino di questo anacronismo sta tutto qua: come sarebbe sentire la voce di De André calarsi nel mondo di oggi?

Un effetto simile, di ritorno al futuro, è quello che si è ottenuto assistendo nelle sale cinematografiche a una delle tre serate (17, 18, 19 febbraio) dedicate al cantautore, protagonista di Fabrizio De André e PFM – Il concerto ritrovato. La docu-fiction è incentrata sulla registrazione audio-video, riapparsa quasi per magia dopo 40 anni, di una delle tappe del tour che vide sullo stesso palco la canzone d’autore e il progressive italiano.

La regia di Walter Veltroni incastona la registrazione in una cornice di conversazioni e ricordi che si snoda tra la Sardegna – dove De André si trasferì negli anni settanta e dove visse la drammatica esperienza del rapimento a opera dell’anonima sequestri – e Genova, tra il teatro milanese dove si tennero le prove del tour e le colline dove corre il treno d’epoca della linea Genova-Casella. Qui, a bordo del vagone ristorante, discorrono insieme a David Riondino, che si esibiva in apertura dei concerti, Franz Di Cioccio e Patrick Djivas – batterista e bassista della Premiata Forneria Marconi –, i quali delineano un ritratto della personalità di De André più aspro e caustico di quello che vorrebbe la loro interlocutrice Dori Ghezzi, moglie del cantautore, sempre attenta invece ad accreditare un’immagine quasi agiografica di Faber.

Ma finalmente gli aneddoti lasciano spazio alla registrazione del concerto, ottimamente restaurata (meglio l’audio che il video) e accompagnata dal riuscito espediente grafico dei testi delle canzoni, riprodotti nella grafia di De André, che si inscrivono sullo schermo, come se fossero tracciati dalla voce stessa del cantautore. Ed è questo il punto, la voce, nella sua doppia accezione sensibile e poetica.

Quanto al primo aspetto, ciò che colpisce immediatamente è il timbro. In un saggio di ontologia della musica incentrato su La canzone di Marinella, Alessandro Arbo nota come, da un certo punto di vista, tra i caratteri essenziali e costitutivi dell’“opera” di De André si debba considerare la sua stessa voce: «Une oeuvre d’un cantautore se présente généralement à nous comme inséparable de la voix du chanteur» (Arbo 2014, p. 90).

Inutile insistere sul carattere inconfondibile della voce di De André, sul timbro profondo e pulitissimo (nonostante le sigarette che fuma anche durante il concerto), sulla dizione precisa che snocciola le parole arrotandole e rendendole aguzze o, viceversa, addolcendole e limandone le asperità. La registrazione del concerto porta all’attenzione un altro aspetto, meno evidente nel caso di un cantautore così refrattario alle esibizioni dal vivo, che è l’estrema intonazione (naturale, senza gli artifici dello studio di registrazione) e un impressionante senso del ritmo (come riesce a entrare a tempo sull’arrangiamento di Bocca di rosa realizzato dalla PFM?).

A buon diritto si potrebbero evocare le pagine di Roland Barthes sulla «grana della voce», qualcosa di non riducibile al timbro ma da intendersi piuttosto come significanza data «dalla frizione della musica e di un’altra cosa, che è la lingua». Come afferma Barthes, «bisogna che il canto parli, o meglio, che scriva» (Barthes 1982, p. 263). Proprio come avviene sul grande schermo, mentre compaiono e scompaiono le parole mano a mano che De André le pronuncia. A differenza di quel che si potrebbe pensare, nessun “effetto karaoke”: l’occhio anzi strappa i versi degli evergreen (La guerra di Piero, Via del Campo) alla pigrizia della rammemorazione meccanica e illumina la comprensione dei brani meglio noti agli iniziati.

Ed è così che veniamo al secondo punto, la voce poetica. Il vestito multicolore dell’arrangiamento rock dà risalto al dettato di De André, capace di parlare in maniera lieve di argomenti durissimi e con solennità di piccole vicende di provincia. In ogni caso, i temi vengono affrontati attraverso prospettive non convenzionali: la religione, l’aborto, la guerra, la prostituzione, l’impegno (o il disimpegno) politico, tutto ciò che animava e divideva l’Italia degli anni settanta viene trasfigurato dai testi di De André, aprendo mondi alternativi, scenari possibili, rivisitazioni oniriche. Nella voce poetica risuona il presente di allora e la registrazione del concerto, con i brevi interventi esplicativi di De André, con le piccole varianti improvvisate (il cantautore che modifica il testo di Amico fragile, mandando a quel paese un gruppo di contestatori presente tra il pubblico), restituisce la pregnanza di un evento irripetibile, di un’esperienza collettiva.

Lo spettatore, sprofondato nel concerto del 1979, potrebbe per un attimo uscire dall’immedesimazione e osservare, nella sala buia del cinema, un pubblico un po’ attempato che in religioso silenzio osserva la registrazione di un giovane uomo che canta per un pubblico incandescente di ragazze e ragazzi. Il contrasto stridente tra la partecipazione comunitaria di allora e la fruizione composta e individuale di oggi si stempera però nel momento dei titoli di coda, quando un lungo applauso conferma ai presenti che, sì, abbiamo visto insieme uno spettacolo che pensavamo fosse andato perduto.

Di quella tournée avevamo già alcuni documenti: due album dal vivo, pubblicati nel 1979 e nel 1980, le fotografie di Guido Harari, con il curioso scatto di De André sdraiato per terra vicino a un termosifone (la dedica del cantautore al fotografo, auto-citazionista, suona “Col culo esposto a un radiatore s’era assopito il cantautore”). Che cosa aggiunge la docu-fiction? La risposta attiene alla modalità della fruizione cinematografica, che convoca un insieme di individui in una sala da cui, al termine della proiezione, emerge un pubblico consapevole di aver condiviso lo stesso segmento di tempo. In questo ritorno al presente di un collettivo che manca sta la seduzione del De André ritrovato.

Riferimenti bibliografici
A. Arbo, La canzone di Marinella. Un petit test pour l’ontologie de la musique, in A. Arbo, M. Ruta (a cura di), Ontologie musicale. Perspectives et débats, Hermann, Parigi 2014.
R. Barthes, La grana della voce (1982), in Id., L’ovvio e l’ottuso. Saggi critici III, Einaudi, Torino 2001.
V. Bo, G. Harari, Studio Azzurro (a cura di), Fabrizio De André. La mostra, Silvana Editoriale, Milano 2008.

Fabrizio De André e PFM − Il concerto ritrovato. Regia: Walter Veltroni; sceneggiatura: Walter Veltroni; fotografia: Emanuele Cerri; montaggio: Marco Ferrari; interpreti: Fabrizio De André, Franz Di Cioccio, Patrick Djivas, Franco Mussida, Flavio Premoli, Dori Ghezzi, Piero Frattari, Guido Harari, David Riondino; produzione: Sony Music; distribuzione: Nexo Digital; origine: Italia; durata: 90′.

Share