«Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio». Le prime parole della preghiera straordinaria pronunciata da Papa Francesco sul sagrato della Basilica di San Pietro la sera del 27 marzo possono ben essere considerate un caso di “diegetizzazione del dispositivo”: perché la piazza che il Papa aveva appena attraversato e che ora si stendeva davanti e intorno a lui era livida di pioggia, plumbea nell’ora calante, sconsolatamente deserta nella sua vastità senza senso.

Piazze vuote, strade deserte, parchi immoti: non c’è solo Piazza san Pietro nel patrimonio iconografico degli spazi urbani privi di presenze umane che si sta costituendo in questi giorni a opera di immagini televisive, camere di sorveglianza e riprese dei droni. Qualcuno ha richiamato a questo proposito le immagini di film o serie televisive distopiche che raccontano della fine dell’umanità e del permanere autonomo e paradossale dei dispositivi urbani che ne ospitavano i movimenti e le azioni.

Difficile però non cogliere dietro questa particolare “estetica della assenza” altre suggestioni: gli spazi metafisici della pittura di De Chirico, o meglio ancora la ripresa e la riformulazione di quelle suggestioni pittoriche nell’ultima straordinaria sequenza di L’Eclisse (1962) di Michelangelo Antonioni: alle scene iperaffollate e tumultuose delle contrattazioni presso la Borsa di Roma fanno da contraltare queste immagini fisse, queste lente panoramiche, questi carrelli laterali su un parco vuoto, una casa in costruzione, un angolo di strada, una fermata di autobus. Scende la sera, si accendono i lampioni: il silenzio è assordante e il vuoto desolante. Fine.

Estetica dell’assenza ho detto; ma meglio ancora sarebbe dire (riprendendo l’intuizione di Antonioni) estetica dell’eclisse. L’eclisse infatti è quel fenomeno di occultazione (ma non di abbandono) che avviene quando un qualsiasi corpo celeste, (tipicamente un satellite come la Luna), si interpone tra una sorgente di luce (una stella o un corpo che brilla di luce riflessa, tipicamente il Sole) e un pianeta illuminato da tale sorgente (la Terra): quest’ultimo entra quindi nel cono d’ombra o di penombra del corpo interposto. Un fenomeno che riguarda sostanzialmente il visibile e i giochi di ombre e proiezioni propri dell’economia della luce (fenomeno implicato dunque, è appena il caso di osservarlo di sfuggita, nello stesso dispositivo di proiezione del cinema: non a caso l’allineamento di Sole, Terra e Luna che produce una eclisse lunare si ritrova all’inizio di 2001: Odissea nello spazio).

Si profila meglio in tal modo il senso delle immagini di svuotamento che ci stanno sommergendo, come pure il particolare tipo di inquietudine che esse implicano. La modernità nasce insieme alla visibilità della folla: gli assembramenti, il convogliarsi di gruppi immensi di soggetti, il loro divenire una entità unica dotata di forme di ragionamento e di azione autonomi e del tutto differenti da quelli individuali, segnano all’inizio dell’Ottocento un punto di non ritorno dell’esperienza moderna e inaugurano di fatto gli studi sul sociale. Ma l’idea di folla, e poi di massa, non è una idea astratta: la nascita della moderna idea di società viene accompagnata da una intensa e variegata iconografia della folla. Essa riempie gli spazi urbani e i luoghi di vacanza (Risi); si concentra nelle sale cinematografiche (King Vidor); si reca ai raduni di massa in giornate particolari (Ettore Scola); entra negli schermi con i kolossal affollati di comparse (scegliete voi l’autore). La folla si stipa negli studi della neotelevisione, economico sostituto delle scenografie veterotelevisive, autorizzato ad abbandonare gli spazi canonici della platea e circondare i comici ridendo rumorosamente alle loro battute. E occupa strade e piazze nei momenti di rivolta seguiti con passione da telecamere, telefonini, camere di scurezza e droni. 

Difficile non pensare che il nostro senso di appartenenza a una o più comunità non sia stato sostenuto dall’assistere e dal partecipare a questo esibirsi della folla: gli assemblaggi sociali si basano comunque sull’esperienza “assembleare” vivente e vissuta, sulla percezione visuale, uditiva e tattile di una folla davanti e intorno a noi (Negri e Hardt). Anche le grandi tragedie del nostro tempo (penso in particolare all’11 settembre) sono state tragedie collettive in quanto vissute attraverso la mediazione costantemente percepibile di una folla spaventata, smarrita, arrabbiata, impegnata a vivere e superare il lutto come e con noi (Carbone). Questa folla ora si è eclissata. Siamo rimasti soli a doverci sentire comunità. Siamo da soli a dover morire insieme. E di qui nasce il senso di smarrimento che ci attanaglia – e che aggiunge una nota tutta particolare alla narrativa tragica di cui parlava su questa testata Roberto De Gaetano –: siamo chiamati a fare qualcosa che non siamo stati formati a fare, ci vengono richieste competenze che la nostra cultura non ci ha dato, dobbiamo fare un salto evolutivo e maturare risorse di cui non siamo stati dotati.

Questo il senso del discorso che il Papa ha pronunciato alla piazza deserta commentando il brano della tempesta sedata (Mc 4, 35-41). Siamo sulla stessa barca (la barca è simbolo antico della comunità della ecclesia, ovvero della assemblea: la metafora è stata ripresa da vari commentatori in questo periodo, per esempio da Slavoj Žižek), ma dobbiamo (re)imparare a rendercene conto: apparteniamo a una comunità, ma dobbiamo riscoprire questa appartenenza. Dobbiamo renderci conto della invisibilità di una comunità che pure è reale, mediante una percezione «capace di riscattare, di valorizzare e di mostrare come le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni – solitamente dimenticate – che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né nelle grandi passerelle dell’ultimo show, ma… che hanno compreso che nessuno si salva da solo». Riprendendo una formula che ha attraversato la teologia liturgica, possiamo chiosare ricordando che possono darsi messe sine populo, ma che ogni messa è sempre pro populo – per il popolo e in presenza di una comunità reale e invisibile.

Ovviamente il discorso di Papa Francesco è espresso in termini religiosi: ci si può riavvicinare ai fratelli solo se ci si riavvicina a Gesù con un rinnovato slancio di fede e di conversione. Tuttavia, lo stesso giorno della preghiera di Francesco alla piazza deserta, Bob Dylan pubblicava gratuitamente sul proprio sito Murder Most Foul, la sua prima canzone originale dal 2012. Si tratta di un lungo discorso in musica (circa 17 minuti, la medesima durata del discorso di Francesco), condotto con quel tono da vecchio cantastorie fuori dalla Storia tipico dell’ultimo Dylan: il cantautore parte dall’omicidio di Kennedy nel 1963 e ripercorre la Storia da quel primo evento traumatico fino oggi ritessendo una memoria intima e collettiva al tempo stesso. La ripetizione ossessiva della invocazione “play” nell’ultima parte sostituisce il più religioso “pray” e invoca il recitare, il suonare, il rigiocare i film, le canzoni e tutti i frammenti della nostra memoria comune che ci hanno reso e ci rendono quello che siamo. Per uno di quei casi curiosi del destino, lo stesso giorno risuonavano la preghiera religiosa di Francesco e quella laica di Dylan, a invocare la stessa cosa: che l’eclissi della folla non ci sembri la sparizione del comune, e delle comunità che su di esso esercitano la loro legittima sovranità.

Riferimenti bibliografici
M. Carbone, Essere morti insieme. L’evento dell’11 settembre 2001, Torino, Bollati Boringhieri 2007.
R. De Gaetano, Il trauma del virus. Il racconto di un’epidemia, Fata Morgana Web 22/03/2020.
B. Dylan, Murder Most Foul (Official Audio). 
Francesco, Momento di Preghiera 2020-03-27, Vatican News. 
A. Negri, Michael Hardt, Assemblea, Ponte alle Grazie, Firenze 2018. 
Ordinamento generale del messale romano (2003).
S.Žižek, Virus. Catastrofe e solidarietà, 5a edizione digitale, Ponte alle Grazie, Firenze 2020. 

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