Ciò che è nascosto, l’occulto, affascina. “Perché Poppea pensò di nascondere le bellezze del suo volto, se non per renderle più preziose ai suoi amanti?” (Montaigne).
J. Starobinski
L’occultamento, si sa, è complice – se non addirittura innesco – al desiderio. Magnetizza e chiama a scoprire ciò che si intravede oltre un velamento. Promette, soprattutto, che è possibile vedere di più di ciò che s’intuisce appena, mentre l’immaginazione lo prefigura. Il meccanismo in cui la seduzione ci prende (e spesso ci perde), già simile all’estasi per come rapisce e aliena da ogni altra realtà che non sia l’oggetto del desiderio, non è poi diverso da quello del cinema: meccanismo che cattura, seduce. E, per di più, coetaneo di altre invenzioni figlie del medesimo anelito a vedere di più, dai raggi X (novembre 1895) alle prime interpretazioni freudiane dei sogni (luglio 1895).
Estasi (1933), di Gustav Machatý, è invece un film paradossalmente tanto poco visto quanto molto citato, ricordato nelle mitologie (più che nelle storie) del cinema. Ed essenzialmente per una stessa ragione, legata proprio al veder più addentro: il primo con un nudo integrale, della protagonista Hedy Kiesler (non ancora ribattezzata Lamarr come sarà una volta emigrata a Hollywood dall’Austria), nonché la scena di un atto sessuale. Primo film, dunque, ad assecondare l’anelito a vedere di più, voyeurismo essenziale del cinema.
E, se ogni restauro di un film è a propria volta un vedere ancora e di più ciò che tempo e storia occultano o minacciano di far scomparire, così l’edizione restaurata-filologicamente ricostruita (dal Národní filmový archiv di Praga presso i laboratori de L’immagine ritrovata di Bologna) di Estasi, che si proietta nella serata di preapertura di Venezia 76, invita a rivedere il film come “nudo”. Quindi, per quanto possibile, al di là dei velami della sua storia e vicissitudini (censorie, distributive) che lo hanno nascosto/rivestito, benché ogni occultamento alimenti – a proprio malgrado – mitologie, seduzioni, curiosità. Che fiorirono da subito, con la prima proiezione alla II edizione (1934) della Mostra di Venezia, dove – tra la femme fatale di Ophüls (La signora di tutti) e Gable e Colbert che dormono in letti separati da una coperta appesa (Accadde una notte), ironizzando sul codice Hays fresco d’applicazione – scandalizzò opinione e stampa (soprattutto cattolica), ma guadagnando attenzione di pubblico e critica e, a posteriori, anche la Coppa Città di Venezia per la regia.
Ma tentando di vedere di più delle cronache, delle storie (dei paratesti che occultano il suo testo), e tentando di veder di più delle scene per cui è famoso (e la cui mitologia occulta il resto?), Estasi è soprattutto un film in cui la fuga si scopre coessenziale al desiderio, che, per alimentarsi e rapire, deve restare insoddisfatto, differito, mai una volta per tutte saziato. Come se non potesse prodursi che da un ostacolo. Così di fuga parla intanto l’intreccio stesso pur partendo dallo schema piuttosto “canonico” delle storie di adulterio (cui del resto Machatý non era nuovo, avendo diretto una trasposizione da La sonata a Kreutzer nel ‘27 ed Erotikon nel ‘29).
Eva, novella sposa, sfugge al marito Emile che non ne asseconda il desiderio, lo trova appagato nell’amante Adam, poi a propria volta abbandonato dalla donna che nuovamente fugge in preda al senso di colpa. La stessa scena in cui il voyeurismo del cinema trovava proprio appagamento si produce da una serie di fughe: di Eva a cavallo, dell’animale che scompare per inseguire una puledra, e quella ottica della stessa macchina da presa che conquista la visione del corpo poco più che adolescente della Kiesler che fa il bagno nuda in un torrente valicando in carrellata i cespugli sulla riva che l’occultano.
È soprattutto l’inquadratura (che, se presuppone e crea fuoricampo, con Bazin, è cadre – “quadro” – che può dirsi anche cache cioè “velame”, “nascondimento”) a fuggire la manifestazione piena ed evidente di eros, se fascinazione va a braccetto con mistero. Lo sguardo differisce altrove ogni qual volta sembra trovarsi sul punto di scoprire l’oggetto del desiderio, relegando fuori campo l’appagamento definitivo (della visione). È un andar fuori dello sguardo: l’estasi. Ecco le allusioni, le sineddochi, allora, dalle connotazioni sessuali più o meno evidenti: Emile che non riesce a infilare la chiave nella serratura dell’appartamento la prima notte di nozze; la goccia di pioggia che, al termine della notte d’amore, stilla nell’incavo di un’orchidea. Sottratta, occultata la visione dei personaggi, la manifestazione della loro sensualità transita quindi sugli oggetti, scoprendone il sensualismo: quasi una “vita erotica” delle cose.
Ed è qui che si manifesta invece la potenza del cinema, che può rendere visibile il sentire di personaggi proprio mentre li differisce, li fugge, guardando alle cose che parlano di loro in un film pochissimo parlato. Cinema che – nel suo anelito a vedere di più – tutto può far dire a tutto, e scopre, col proprio piacere e la propria potenza di catturare il movimento delle cose, soprattutto quello di saperle vive, non inanimate. Dinamiche, in fuga, quindi: oltre agli animali, le spighe che ondeggiano dove Eva e Adam s’incontrano, o ritmi e movimenti degli attrezzi da lavoro sul cantiere di lui in un epilogo che fa pensare a certo cinema sovietico (in particolare, Il vecchio e il nuovo di Ejzenštejn, in cui, per altro, e sempre in tema di oggetti e sensualismo, la scena della messa in funzione di una scrematrice “mimava” l’atto sessuale).
Cose che la mitologia ha nascoste, e che forse parlano del nudo oggetto di desiderio del film, o di ogni cinema: non gli occhi felini o la pelle che immaginiamo serica, né il naso puntuto di una giovane attrice austriaca (poi con una fortuna altalenante oltreoceano, anche minata dalla fama negativa di Estasi). La vita, invece, né più né meno, che il cinema sa vedere (dire, costruire), nel suo essere in fuga, anche a prescindere e differendo dai personaggi, e inclusa quella delle cose che (al cinema) sembrano aver vita, e che ci tengono in vita finché se ne è presi e appassionati: estasi, eros, desideri (di vivere/vedere più), cinema. Oppure sì: la bocca di Hedy, quando sorride a un bambino.
Riferimenti bibliografici
A. Bazin, Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano 2014.
J. Starobinski, L’occhio vivente. Studi su Corneille, Racine, Stendhal, Freud, Einaudi, Torino 1975.