È ormai da tempo che nello scenario dell’immagine contemporanea, nei territori di confine tra cinema e pratiche artistiche si aggira uno sguardo particolare, intimo, discreto ma potente. Un cinema dell’interiorità, come lo ebbe a definire Ilaria Gatti in un libro del 2005 (Lo sguardo discreto. Il cinema dell’interiorità da Virginia Woolf a Kiarostami). Un cinema cioè che fa dell’esperienza personale, intima, soggettiva il terreno di origine dell’immagine, il territorio di scontro tra un io e il mondo, e al tempo stesso uno spazio per la nascita di nuove immagini, tutt’altro che individuali o singolari, ma capaci piuttosto di farsi mondo, di proiettarsi universalmente nello sguardo dello spettatore. È un cinema dell’interiorità che si proietta al di fuori non come gesto narcisista, ma come possibilità di oltrepassare il finto distacco del corpo di chi filma dal mondo che sta filmando; è la consapevolezza che è solo attraverso un corpo a corpo tra un interno e un esterno che un’immagine autenticamente nuova può sorgere.

Questo territorio è vasto, frastagliato, tutto fuorché uniforme; esso attraversa le immagini di molte registe di generazioni diverse: vi si incontrano i racconti poetici e laceranti di Naomi Kawase – che fa del cinema il mezzo per ricomporre i legami perduti, trasfigurati in immagini; le immagini di Agnès Varda – il cui personaggio, la cui maschera nel corso degli anni ha marcato uno sguardo ironico e affettuoso sul mondo; i viaggi filmici di Sepideh Farsi – fatti di memorie impossibili, di esili e di impossibili ritorni; vi appartiene il lavoro sui luoghi carichi di memoria personale e collettiva allo stesso tempo che caratterizza il cinema di Lee Anne Schmitt e anche le forme apparentemente più astratte dei lavori di confine tra cinema e forme sperimentali, come nelle opere di Sharon Lockhart, di Deborah Stratman o di Shelly Silver. Autrici diverse, per formazione, percorsi, sensibilità. Autrici di un cinema molteplice, non certo monolitico o codificato. Ma pur nelle loro differenze, si tratta di sguardi che presentano elementi comuni, a partire dal riconoscimento di uno sguardo femminile radicale e necessario, nucleo originario di un’immagine nuova. Un cinema che non teme di fare delle ferite dell’Io il punto di partenza per uno sguardo verso il fuori e che quindi non teme di superare confini (tra cinema e pratiche artistiche), e distanze (tra chi filma e chi è filmato).

Il cinema dell’interiorità è un cinema al femminile, dunque? È indubbio che una tale pratica radicale attraversa profondamente le opere di registe anche molto lontane tra loro, ed è altrettanto indubbio che in un certo senso c’è una figura che più di altre sembra rappresentare questa radicalità di sguardo, questo mettersi in gioco totalmente al fine di fare/essere cinema, di mettere in questione l’ordine apparente del mondo. Una figura straordinaria e tragica al tempo stesso, il cui sguardo ci manca. Era il 5 ottobre 2015 quando arrivò, improvvisa, inaspettata forse, la notizia della morte di Chantal Akerman. Una sola parola, terribile e oscura: suicidio. È un termine che crea un cortocircuito strano, inquietante, insopportabile; una parola che sfugge spesso alla comprensione.

Il cinema di Akerman è sempre stato declinato in prima persona, anche quando apparentemente raccontava la storia di altri personaggi – Jeanne Dielman, Anna e i suoi incontri, Béatrice; in gioco in fondo c’era sempre un lancinante tentativo di raccontarsi, di trovare immagini che corrispondessero alle ossessioni, alle questioni più intime di una vita marcata dalla sofferenza, da zone vuote, da memorie familiari incomplete; una vita marcata dalla tragedia non vissuta direttamente, la tragedia che marchia il XX secolo: la Shoah.

A cinque anni di distanza da quella scomparsa è legittimo, finanche necessario chiedersi cosa rimane oggi di quello sguardo, radicale e difficilmente assimilabile a correnti precise. Cosa rimane nel cinema contemporaneo di quella radicale e disperata ricerca di forme, di quella vitale esposizione di sé. L’occasione per rispondere viene proprio da un libro recente di Ilaria Gatti, scritto in collaborazione con Alessandro Cappabianca, Chantal Akerman. Uno schermo nel deserto, che si presenta come una monografia sulla cineasta belga, ma che si rivela essere, man mano che la lettura procede, qualcosa di più.

Anzitutto la scrittura. Quella di Ilaria Gatti e Cappabianca è una scrittura coinvolta, personale, tutto meno che distanziata dallo sguardo di Chantal Akerman. La scelta è netta: non si tratta di ricostruire un percorso d’autore, partendo dai primi lavori fino a coprire l’arco della produzione della regista, ma di entrare all’interno di parole chiave che identificano da una parte il mistero di una vita e, dall’altra, il dispiegarsi di una forma cinematografica. Gli autori non cercano di spiegare o interpretare l’inquietudine che ha sempre attraversato il cinema di Akerman, ma ne rintracciano le forme che via via essa ha preso, incardinate in termini come identità, memoria, madre, tempo, confini, città, corpo, casa, ecc. Ognuno di questi termini è un capitolo, vale a dire una possibilità di riattraversare il cinema contemporaneo dalla prospettiva del percorso personale di Chantal Akerman, a partire da un aspetto che inevitabilmente si lega ai percorsi di tante altre autrici degli ultimi decenni.

Basta un rapido sguardo dunque per rendersi conto che ognuno di questi termini diventa una parola chiave non solo e non tanto per il cinema di Akerman, ma per l’immagine contemporanea tout court. Ed è per questo che i percorsi del libro, assolutamente non cronologici, costruiscono l’idea di un cinema del presente, un cinema contemporaneo, di cui Chantal Akerman è stata una delle iniziatrici, e di cui molte delle registe citate in apertura sono (o sono state) le attuali esploratrici. Un cinema espanso e al tempo stesso intimo, tattile, come le installazioni di Akerman, vere messe in crisi del linguaggio classico del cinema: «Invito, per lo spettatore, ad attivare uno sguardo dinamico, creativo. E compartecipato, uno sguardo in qualche modo tattile» (Gatti, Cappabianca 2019, p. 226). Uno sguardo tattile che dalla regista si trasferisce allo spettatore. Uno sguardo che costituisce, allora, una delle eredità profonde di Chantal Akerman nel cinema contemporaneo.

Riferimenti bibliografici
I. Gatti, Lo sguardo discreto. Il cinema dell’interiorità da Virginia Woolf a Kiarostami, Le Mani, Recco (Ge) 2005.
Id., A. Cappabianca, Chantal Akerman. Uno schermo nel deserto, Fefè Editore, Roma 2019.

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