“Liberamente obbligata” è l’espressione che usa Elisa, la protagonista dell’omonimo film di Leonardo Di Costanzo, provando a raccontare la sua storia al criminologo Aloui, che le sta di fronte nell’istituto sperimentale di detenzione in Svizzera dov’è reclusa per aver ucciso dieci anni prima la sorella maggiore senza apparente movente.
L’espressione “liberamente obbligata” connota le forme del tragico antico, dove la corrispondenza alla necessità del destino è l’unica forma in cui si manifesta la libertà del soggetto. Tutto ciò che accade ha una sua necessità, alla quale non può che conformarsi la libera volontà del soggetto. Elisa non poteva far altro a vent’anni che seguire le orme del padre, prendere la guida dell’azienda di famiglia, insieme al fratello, mentre la sorella maggiore aveva deciso di fare altro e di vivere altrove.
Ma perché Elisa non poteva fare altro? Qui il film ci dice, attraverso le parole della protagonista e i commenti del criminologo, le ragioni di questa impossibilità di libera scelta. Cioè ricostruisce il profilo psicologico del personaggio, attraverso azioni fatte e subite, passioni “tristi” e risentimenti. La mancanza di amore materno nell’infanzia (la madre a più riprese le aveva detto di non essere stata una figlia desiderata) ha messo Elisa in condizione di dover cercare il riconoscimento paterno, e anche fraterno. Per cui non solo assunzione di responsabilità piena nel governo della ditta di famiglia, ma anche l’obiettivo di perseguirne il successo. Cosa che non avviene, perché la ditta fallisce, e tale fallimento è qualcosa che Elisa non riesce a sopportare. Per cui il peso della responsabilità che si sente gravare lo fa slittare sulla sorella, scrivendo a suo nome una falsa lettera al padre. Tale gesto sarà il punto di non ritorno di tutta la situazione. La paura di essere scoperta genererà tutto il resto. Ed è proprio l’assenza di coraggio, il sentimento che ha orientato – come Elisa stessa riconosce – tutto il suo agire e tutta la sua vita. Uccide di fatto per paura.
Ma se il film si limitasse a questo, in fondo non sarebbe che il racconto di un episodio di cronaca nera. La questione in gioco è un’altra, e concerne il carattere tragico della storia (in gioco anche in altri film di Leonardo Di Costanzo, come ne L’intrusa), cioè la colpa commessa e il suo riconoscimento come condizione attraverso cui il soggetto può accedere, per via di una presa di coscienza, ad una libertà maggiore, che altrimenti gli sarebbe interdetta. Alla fine del suo percorso con Aloui, Elisa accetterà la libertà vigilata, che prima non voleva accettare.
Il film mostra da un lato come la colpa effettiva sia l’attuazione di un senso di colpa che la precede e che la genera. Senza il sentimento di insufficienza e di inadeguatezza di Elisa l’omicidio non sarebbe avvenuto. E dall’altro, senza la punizione rieducativa che ne consegue, il soggetto non potrebbe accedere ad una ripresa sia pur parziale della vita, cioè ad un percorso emendativo, e resterebbe bloccato ad una vita minorata. Cioè resterebbe in uno stato confuso, opaco e paralizzante (come Elisa all’inizio).
Paul Ricoeur in Finitudine e colpa dice a tal proposito qualcosa di importante: «L’essenziale della colpevolezza è già contenuto in questa coscienza di essere “carichi”, “carichi” di un peso. La colpa non sarà mai altro che il castigo stesso anticipato, interiorizzato e che già pesa sulla coscienza» (2021, p. 354).
È la «diminuzione del valore stesso dell’esistenza» (ivi, p. 355) che precede la colpa, e da questa viene accresciuto. Anche se, subito dopo aver ucciso la sorella, l’angoscia sembra andarsene e Elisa, come dice lei stessa, si sente tranquilla. La presa di coscienza, attuata attraverso la parola, come vera e propria pratica psicoanalitica, e la punizione recuperativa sono necessarie e richieste dal soggetto stesso (sarà Elisa a tornare dal criminologo), perché solo in questo modo può tornare a far rifluire la vita. Non c’è amore che possa compensare la necessità di tale processo, neanche quello del padre, che due volte a settimana la va a trovare nell’istituto.
La forza e il rigore del film di Leonardo Di Costanzo risiedono nel mostrare come il tema della effettività della colpa e dei processi che la possono emendare definiscono – riprendendo il senso del tragico antico – una forma dolorosa di soggettivazione. E qui il volto classicamente tragico della Ronchi permette di dare corpo ontologico a tale soggettivazione, evitando ogni banale psicoligizzazione.
Questo dolore inalienabile e attuale si distingue radicalmente dalla condizione presente, in cui i sensi di colpa socialmente diffusi, pur se non si traducono in colpe effettive diventano il motore di processi di colpevolizzazione generalizzata dell’altro, determinando un circuito infernale di vittimizzazione e colpevolizzazione totale (dove si pretende che tutto sia riportato sotto il regime del giuridico). E quando le colpe diventano veramente effettive lì i soggetti (anche collettivi) si sottraggono a ogni giudizio, pretendendo l’impunità, guadagnata con l’uso brutale della forza.
In questo, il percorso della coscienza tragica di Elisa, portando alla luce l’orrore – effettivo e potenziale – che abita l’umano, definisce anche le condizioni per leggere quell’orrore senza tragedia, e dunque inemendabile, che definisce il tempo presente.
Riferimenti bibliografici
P. Ricoeur, Finitudine e colpa, Morcelliana, Brescia, 2021.
Elisa. Regia: Leonardo Di Costanzo; sceneggiatura: Leonardo Di Costanzo, Bruno Oliviero, Valia Santella; fotografia: Luca Bigazzi; montaggio: Carlotta Cristiani; interpreti: Barbara Ronchi, Roschdy Zem, Diego Ribon, Valeria Golino; produzione: Tempesta (Carlo Cresto-Dina, Manuela Melissano), Amka Films Productions (Michela Pini, Amel Soudani), Rai Cinema, RSI Radiotelevisione svizzera; origine: Italia, Svizzera; durata: 105’; anno: 2025.